giovedì 13 gennaio 2022

Isole del sé fluttuanti

Vedete la foto qui sotto?
Condensa la mia mattinata, in cui ho smontato le decorazioni natalizie, sistemandole operosamente ai loro posti e in cui ho messo mano a scatoloni di cose (libri, buste, sceneggiature, foto con portafoto discutibili che però non riesco a buttare perché mi ricordo chi dove come e quando, flyers, pins, agende) che mia mamma mi ha obbligato a portarmi a Milano.
Ho archiviato tutto ciò che del Natale è stato comprato, ricevuto, prodotto. Ma come potevo archiviare le decorazioni in pane e spezie di Mariam? Si sarebbero ammuffite o peggio avrebbero attirato topi in cantina, però, come separarmene? Le guardo e immagino le sue dita cicciotte che ci lavorano, sporche. Lei che ride di soppiatto mentre si dà una leccatina alle mani salate, e poi si infastidisce perché lo sporco non viene via. Che bisticcia con il compagno perché ha preso l'anice stellato che voleva lei, e glielo strappa e poi dice "Fscusa" e glielo riconsegna. C'è un mondo che ha a che fare con lei, dentro quell'oggetto. Con lei adesso, anzi, un mese fa, a due anni e mezzo, che parla in un modo in cui non ha mai parlato prima e mai parlerà più. Con lei che conosco ora, che è diversa da prima e mai più sarà così. Come faccio a lasciarla andare?
Poi ho aperto la busta blu di un tour operator, in cui avevo archiviato flyers del viaggio negli USA. Avevo 13/14 anni, con mamma, papà, sorelle e amici di famiglia. E quella frase sulle Torri Gemelle mi ha dato i capogiri. Ho iniziato a fare spin nel tempo, nei tempi, nelle me che riemergevano da quelle buste: a Londra per la prima volta di tante, i volti, i rumori, mind the gap, in Erasmus a Valencia, la mia prima vacanza da sola on the road dalla Sicilia fino a casa, diari, foto di me da piccola conservate nella Smemo da adolescente, biglietti di auguri da persone a cui voglio bene ma che non sento da anni e forse mai più sentirò. Emergono i volti immaginati dei figli del mio fidanzato con cui andai a Londra altre volte, con la London Travel Card che mi fece trovare all'arrivo, la sensazione del dolore sulla pelle della scottatura presa in Puglia quando, mi ricordo ora, il mare sembrava farmi allergia e starnutivo tutto il giorno, l'odore di piscio durante las Fallas, i disegni che feci in Inghilterra l'ultima, anzi penultima volta, che non so come un insegnante mi aveva davvero insegnato a disegnare, e gli appunti presi per dei progetti che non ho mai finito e il rimpianto di non averlo fatto, e altre cose che invece mi ricordano che sono viva, con successi e fallimenti e conclusioni sconclusionate incluse, di libri letti o no, che penso che forse sarebbe meglio passare all'e-reader ma non ci passerò e continuerò a scriverli sottolinearli, sgualcirli e a sperare che le mie figlie leggeranno. E riemergono ricordi slegati da cose, legati al cuore e quelli, quelli sono i più ostinati, sono quelli per cui sai che devi trovare la forza per guardare, analizzare, comprendere, salutare e, comunque vada, rimarranno. 
Mi sento scombussolata e so per certo che non è la sola fatica fisica, anzi, il grosso ancora lo devo fare: portare in cantina o in spazzatura. 
E' questo vortice di piani temporali, di me passate che fluttuano in questa me discretamente presente nel presente e probabilmente si coaguleranno in modo misterioso in una me futura. E nelle mie figlie che se poi ci penso non le vedrò mai vecchie e sono già disperata ora e io sarò un pensiero cristallizzato, multiformamente sfaccettato e inamovibile in loro e spero che sia un pensiero che le sappia riportare a casa, al sicuro, alla pace. E l'abisso delle persone che vivono in me in ricordi dimenticati, e ogni foglio che ho buttato oggi - perché lo so, Marie Kondo tra le altre me l'ha spiegato, non possiamo tenere tutto - ogni foglio è un ricordo che ho salutato e probabilmente se ne andrà senza davvero andarsene. Si riattivava preciso di fronte all'oggetto, riemergeva dal segreto e tra qualche ora sarà di nuovo inabissato. E io esisto dentro e fuori, sopra e sotto, accanto e imbevuta di quei ricordi. E il tempo mi assedia, e mi assilla il rimpianto di ogni secondo sprecato e di come sia passato dentro quei posti del tempo e dello spazio senza esserci e come ancora sappia compiere ancora ed ancora lo stesso errore, ma forse non è un'errore, solo la nostra natura. Fatta di infinito eppur di niente, tenuta insieme dalle cose da cui, però, abbiamo l'obbligo di saperci separare. E da corde del cuore i cui nodi, per far passare il futuro, dobbiamo per forza saper allentare.



venerdì 17 settembre 2021

Un bel respiro

Le bimbe dormono. Volevo guardare il tutorial di una hipster americana per imparare a usare gli acquerelli ma non riesco a concentrarmi. 

Il mio psicologo una volta mi ha detto che all'inconscio piacciono le date (un ex fidanzato mi aveva mandato un messaggio proprio il giorno del mio compleanno, non di auguri, un sms per chiedermi un favore, e secondo Rolando era stato un giochetto del suo inconscio). Allora sono andata a spulciare nei messaggi per ricostruire bene la data, che non mi ricordavo più precisamente. E ne ho avuto la conferma, il mio inconscio lo sapeva già: un anno fa era la vigilia di un giorno in cui, non so bene come, presi una valigia e me ne andai di casa con le bimbe.

Un bel respiro.

Si muore un po' per poter vivere, cantava la Caselli per giustificare il suo Insieme a te non ci sto più che però a me piace soprattutto nella versione di Battiato. Ma si muore un po' anche restando, quando ciò in cui resti ti stringe ogni giorno un po' di più. Quando non ti riconosci più in ciò in cui ti sei trovata (o messa o finita o bho). Quando ti accorgi che nemmeno sai più, letteralmente, tenere la schiena dritta da quanto sei provata. E la vecchia te, quella di prima che il mondo si facesse un angosciante asfissiante buco nero, lo sa che corpo e mente sono la stessa cosa, e che se non riesci più a tenere la schiena dritta è grave, che devi rimetterti a fare yoga, che devi far fluire le energie, lo sa, ma non riesce a farsi spazio e  mettersi al comando e prendere in mano la situazione e fare ciò che va fatto. 

Non ci riesce perché è in continuo allarme, perché intorno si è fatto il vuoto, perché é incazzata perché intorno c'è il vuoto -e dove cazzo sono andati tutti-, e chi c'è ausi sempre la giudica, e perché vuole le sue bambine ma lo sa che le sue bambine la fanno andare ad un ritmo necessariamente più lento, e che le accelerate ai bimbi non piacciono, e non riesce perché pensa di avere colpe, perché pensa che se lo ama dovrebbe aiutarlo ancora un po' di più, che se lo molla tutti diranno -o penseranno, che è ancora peggio- " ecco, vedi, te l'avevamo detto, lo sapevamo, dovevi ascoltarci dovevi dovevi dovevi". Non ci riesce perché ormai il cervello è in loop, non si dorme, non si vive, si tira una boccata d'aria ogni tanto. Non ci riesce perché tante cose che rifiuta urlando rispedendole al mittente le sono entrate nella testa, e un po' ci crede davvero e non sa più distinguere paranoie da fatti, non ci riesce perché ci vuole tempo energia e soldi anche per uscirne e perché da perfezionista non accetta che dovrà passare un momento difficilissimo e nemmeno sa quanto lungo sarà questo momento e vorrebbe la bacchetta magica per risolvere tutto, subito, ora, tutto, subito, ora. Non ci riesce perché nonostante tutto e nonostante tutti si mette nei panni dell'altro, che a tratti è carceriere manipolatore tenero amato stronzo irresponsabile paranoico sadico gentile, perché vuole controllarlo, salvarlo, l'ha promesso, se l'è ripromesso, gliel'ha promesso. Non ci riesce perché si sente che è sbagliata lei, che se è finita in questa casa così asfissiante è colpa sua, qualcosa in lei deve essere irrimediabilmente rotto marcio putrefatto e allora perché uscirne che gli altri lo vedranno anche loro quanto di rotto marcio e putrefatto c'è?

Un bel respiro.

365 giorni fa, ho preso una valigia, ho sorriso alle bimbe e sono andata via. Ho lasciato casa mia e speravo, pregavo con tutta la mia forza che anche lui se ne andasse perché se non se ne fosse andato avevo una sola alternativa, e non la volevo. Mi viene da vomitare a pensarci, anche ora. Eppure forse, se lo sarebbe meritato.  Non so, non lo voglio sapere, non ho più voglia di cercare colpe e colpevoli, vittime e vittimismi, ripicche e restituzioni. 

Passano dei giorni, festeggio i miei 40 anni con i cerchi sotto gli occhi, i capelli sporchi, le bambine urlanti, poche amiche tenerissime. Ad un certo punto torno a casa, bimbe a scuola, riprende il lavoro. La pandemia, la DaD, i consigli d'istituto di classe di materia e dipartimento, il parco, le tate, lo psicologo, lacrime, urla, paura ansia rabbia, fai il papà cazzo, devi farlo, ancora lì, che controllo e salvo, le riunioni Al-Anon, la sponsor, "Signore, dammi la serenità", non so più interagire con le persone, di che cosa si parla, vado velocissima e poi rallento, mi incazzo, pesate le parole, prendetevi le vostre ansie che le mie bastano, prendo congedi, sistemo la cantina, i libri, vado dallo psicologo, avvocati, tribunale, custodia, affido, soldi, angoscia, speranza, fai il papà cazzo, prega Marilisa, prega, amorevole intelligenza divina pensaci tu,  ringrazia, la liste delle cose di cui essere grata prima di andare a dormire, nel buio, una di qui l'altra di là, ce le raccontiamo le cose belle della giornata dopo aver fatto mamma lupa e lupacchiotte sotto il lenzuolo, la casa che ritrovo e ricostruisco e ricompongo mia, le ragazze che mi aiutano, dire la verità agli studenti di quinta, ascoltarne due che mi dicono "a casa mia era uguale", i conti con il passato,  l'odore delle case di quando ero piccola, chi ero con gli ex, fare i conti con ciò che ho dato e ciò che ho preso, come l'ho preso, l'avrò restituito, bho, mi sarà stato restituito, che pezzo è mancato, "quando mi lascerai creerò le mie cose più belle, come Orfeo", una fitta al cuore, sogni di pianti tenerissimi, scrivere, sentirmi scema fortunata furibonda stremata timidamente entusiasta sicura di fronte all'abisso pronta.

Un bel respiro. 

E' l'unica cosa che conta. Saper fare un bel respiro al momento giusto. 


Paul Klee, Ponte Rosso, 1928

sabato 16 maggio 2020

Corpi pandemici



Il corpo dell’altro diventa il nemico, il pericolo.
Il corpo mi tradisce svelandosi mortale.
Il corpo che può far morire chi amo.
I corpi dei lavoratori  che ingombrano e intralciano l’accumulo di denaro.
I corpi dei bambini come veicoli di infezione.
I corpi degli insegnanti inutili, sostituiti da indicazioni smaterializzate.
Il corpo delle donne oberato e ostinato.
Il corpo della natura che si riprende spazi.
I corpi in macchina, non più di due.
Il corpo va controllato, allontanato, avvisato con i braccialetti, contenuto: ma non testato e guarito.
Il corpo che si ammala è mia responsabilità.
Il corpo da guarire é la ricchezza per qualcun altro.
Il corpo dei magazzinieri di Amazon.
Il corpo dei commercianti dietro le saracinesche chiuse.
Il corpo di Jeff Bezos nel deposito di Paperone.
Il corpo dei migranti tra la frutta che marcisce.
Il corpo di Silvia Romano.
Il corpo smaterlializzato ed indagato.
Il corpo che si nutre.

Ricordo e rivoglio
Il corpo che balla in mezzo a corpi sconosciuti
Il corpo che abbraccia
Il corpo che lavora incontra scopre
Il corpo che si celebra con i vestiti della festa
Il corpo che scontra e reincontra
I corpi nel buio del teatro, in attesa
Il corpo veicolo dell’anima
Il corpo caldo nel sole e nel mare

Il corpo smaterializzato, evaporato, rimosso, ostracizzato, negato, ostacolato, velato, confinato, riprodotto, anelato, evitato ed evitante.
Il corpo alienato dal lavoro e dall’anima. Niente resta reale.
Il corpo ostaggio.
Il corpo a cui non rinuncio.


domenica 5 aprile 2020

Il mostro dei colori

Un professore che veniva sempre a fare supplenza nella mia classe quando ero al liceo, ogni volta che entrava ci chiedeva di dirgli come stavamo.
Noi rispondevamo sempre e solo “Bene”.
E lui insisteva che dovevamo usare le parole giuste per definire stati d’animo ed emozioni.
E io giuro che non capivo. Non solo io, tutte, anzi tutti, avevo anche un solo compagno di classe quindi la grammatica italiana prevede un (ingiusto) maschile.
Ad ogni modo. Pensavamo tutti che fosse uno strambo.
E invece, quanto aveva ragione. E sono passati anni, e percorsi e terapie e meditazioni. Ed infine l’ho capito: l’importanza delle parole giuste per ogni emozione.
Per poi separarle e metterle nei barattoli come fa Il mostro dei colori che tanto piace a Fatima.
Di qui la tristezza.
Di là il senso di colpa.
Impotenza.
Rammarico.
Risentimento.
Nostalgia. Che è diversa dalla malinconia.
Scoraggiamento.
Accettazione.
Rimprovero.
Desiderio di vendetta.
Pentimento.
Perdono.
Risolutezza.
Testardaggine.
Coraggio.
Incoscienza.
Pavidità.
Panico.
Rancore.
Delicatezza
Rabbia, che poi se la guardi negli occhi ti svela solo che è un grande dolore a cui non hai mai dato spazio.


venerdì 20 marzo 2020

Le più cupe previsioni

Mollo Pollyanna e vesto i panni di Cassandra. Ho bisogno di farlo, per accettare quella parte di me che rinchiudo, che mi fa tremare ogni volta che Fatima sospira "Voglio andare al nido di Nicoletta", che mi fa pensare i pensieri cupi che poi scaccio via e poi roteano e si comprimono come una palla da bowling sullo sterno. Ma so che non resisterò e ci metterò dell'ironia.

  • Moriremo tutti. Resteranno solo gli under 20 che ricostruiranno un mondo da soli. Be', questa non è così tragica. O forse sì, visto che saranno degli under 20 con la PTSD che cureranno con cocktail di droghe sintetiche prese a caso o maratone di Peppa Pig mangiando le Haribo. 
  • Moriranno tutte le persone over 65 che conosco. I miei genitori, i genitori dei miei amici, i nonni negli ospizi, i miei vicini di casa, la stramba che incontro sempre in piazza Durante, un'intera generazione che cade in poco tempo sepolta nelle fosse comuni. Come in una guerra, ma al contrario, muoiono solo i vecchi. Anche qui, con una certa dose di cinismo, ci sarebbero da considerare aspetti positivi tipo per l'INPS o anche per noi (es.levarsi dalle palle molti politici), ma, di nuovo, si traumatizzerebbero i bambini che restano senza nonni. E poi ecco, sono Cassandra, non Boris Johnson. 
  • Moriranno in molti, ma nel frattempo la vita di tutti gli altri si cristallizza in questo tempo sospeso in cui cerchiamo di darci un contegno leggendo o facendo yoga online o che cerchiamo di normalizzare cantando dai balconi ma in cui in realtà siamo come cazzo di topi nelle teche di laboratorio. E questa lontananza diventa la normalità, per sempre. Per sempre distanti, solo videochiamate, solo bambini che giocano a nascondino da piccoli schermi rettangolari, solo didattica a distanza, solo telelavoro, solo telesaluti e aperichat. Ci dimentichiamo la vita di prima e pian piano ci lasciamo cadere in questo simulacro di vita, pigri e grassocci come gli umani sull'astronave di Wall-e. La natura fuori rinasce ma noi non ci ricordiamo più che possiamo andarci, il virus smorza la sua pericolosità ma ormai ci piace o meglio non ci dispiace stare così, lontani ma televicini. I nuovi proletari saranno quelli obbligati ad uscire di casa. Sempre più professioni si trasferiranno dentro le case, finché anche le sedute del parlamento le faranno in pigiama sotto e cravatta sopra.  
  • Vivremo per sempre così. Pietrificati nella vita che avevamo la notte tra il 9 e il 10 marzo 2020, giorno 0 dell'anno 0. Nessun cambiamento di vita possibile. No cambi di lavoro, no passaggi di scuola, no feste di compleanno, no matrimoni, no funerali, no divorzi, no trasferimenti, no nuovi tagli di capelli freschi di parrucchiere (a meno che tu viva con un/una parrucchiere/a), no nuovi amori, no feste di laurea. Fermi tutti. Le belle statuine. 
  • Le misure antivirus non funzioneranno. Non si troveranno cure e nemmeno vaccini (anzi sì, ma i no-vax duri, puri e armati lo distruggeranno). L'intera popolazione mondiale si ammalerà in poco tempo. Gli ospedali verranno presi d'assalto da commandos armati che permetteranno solo ai ricchi e agli ex ospiti del Grande Fratello e X-factor di farsi curare. 
  • Il personale medico alzerà bandiera bianca. Per sfinimento, per malattia, per crollo psico-fisico. Entrerà in sciopero bianco, resteranno seduti in mezzo al delirio. Inerti e impotenti. Ci cureremo come potremo, con preghiere meditazioni bacche tisane integratori e lacrime.
  • Stiamo preparando il terreno per una bellissima e/ancorché inquietantissima puntata collettiva di Black Mirror in cui controllano la temperatura, gli spostamenti, i contatti ravvicinati. In cui amare è vietato perché rischioso. In cui ci tolgono il cuore lasciandolo al loro posto e si passa dalla reificazione di cui parlava Marx alla nullificazione totale. Ruolo centrale dato ai delatori del balcone, quelli che in questi giorni fotografano, inveiscono, urlano, si indignano e si sentono sempre migliori. (io capisco che la situazione è dura, ma se urli ad ogni tizio che piscia il cane ti ammali prima, cara vicina. Lo stress abbassa le difese immunitarie, anche le mie, (nonostante prenda ovviamente gli integratori adatti) perché se esco sul terrazzo per lavorare perché dentro urlano due minorenni in età prescolare e trovo te, mi collassano le sinapsi).
  • I paesi "civili" si faranno la guerra (economica ma anche reale) per appropriarsi dei dispositivi di protezione, dei tamponi, dei respiratori, dei medicinali sotto le luci dei giornalisti di Sky, i paesi poveri come sempre seppelliranno i loro morti in silenzio e al buio. 
  • L'hanno creato in laboratorio. Questa è terribile. Non riesco ad accettarla non solo perché mi auto-classifico come complottara paranoide - categoria che derido nelle sue forme tipo terrapiattismo-, ma soprattutto perché rivelerebbe il male umano in tutto il suo dannato roboante orrore. Come l'11 settembre. La mia mente razionale e il mio cuore emotivo sanno la verità, ma fatico ad aderirvi. Troppo. Già ho accettato i campi di concentramento nazisti, le bombe in Siria, i barconi affondati nel Mediterraneo, la strage dei Royhinga. Che il Nuovo Coronavirus sia arma di guerra batteriologica è un pensiero faticosissimo. Preferisco pensare la zuppa di pipistrelli e serpenti. Ma sono Cassandra e almeno per un attimo lo devo fare.
  • Usciamo da questa quarantena (ad ora sine die, perché non sarà il tre aprile) spossati, incattiviti, con le nostre mancanze caratteriali acuite, pieni di rancore per i nostri prossimi più vicini e pieni di paranoia verso gli altri. Ricominciamo a spendere soldi che non abbiamo per comprare cose ed esperienze che inquinano, ancor più di prima, sempre di più. Per riempire, tamponare, curare malamente la ferita che tutti avremo ma che non sapremo elaborare. Nessuna delle belle parole lette in rete sul cambiamento epocale verso la versione migliore di noi stessi si realizzerà. Saremo solo ancora più stronzi.



martedì 10 marzo 2020

lunedì 6 febbraio 2017

L'amore e il tempo

Corri nel tempo e scorri nel tempo.
E nel tempo scorre qualcosa. 
E nel tempo è qualcosa che conosci e non conosci ma che riconosci. 
E che sa fermare il tempo stesso.

Non l'avrei mai detto. Ho una fede al dito e sono felice. Io capocciona, io individualista, egoista, spaventata e a tratti spaventevole.
Ho attraversato un tempo immenso con furibonda lentezza, per incontrare con estenuante velocità un essere umano che ha un cuore il cui ritmo è uguale al mio. Che ha ferite difetti luminosità slanci paure turbinii ali.
Non che gli altri esseri umani non li abbiano. Ma i suoi risuonano di luoghi lontani eppure così familiari, con un'armonia che mi rassicura e mi riempie e mi allarga il cuore e mi porta i piedi in una voragine in cui mi sento al sicuro.
E per una volta so che anche io voglio non il mio bene, ma il suo. Che potrei vivere lontana da lui se potesse renderlo più felice, che andrei in pellegrinaggio in tutti i luoghi sacri del pianeta per chiedere un'ora in più del suo respiro, ovunque volesse respirare. Che sono disposta a rinunciare ai miei migliori difetti. Che sono disposta a perdonargli i suoi inarrivabili pregi. 

Chiunque dice e dirà ciò che vuole su noi due, penseranno bene o male, inventeranno, faranno ipotesi, cresceranno le lingue e forse si biforcheranno. Nemmeno noi sapremo dire la verità, perché sta in un posto del cuore inaccessibile a chiunque, anche a noi stessi, e se anche ci arrivassimo non sapremmo dirla perché con le parole la soffocheremmo. Sapremo solo riconoscerla e, forse, lo speriamo, provare a viverla, in una tempesta di giorni a venire in cui tenerci stretti, in cui aggrapparci a quell'essenza che scorre nel tempo, immota, quell'essenza che in pochi istanti abbiamo riconosciuto. 

La cosa più vicina alla verità che posso, che possiamo dire, sono le parole di Dante Alighieri alla fine del Paradiso 

A l'alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.

Perché l'esperienza dell'amore, di questo cuore che volevamo lanciare oltre l'ostacolo, di questo cuore che voleva saltare gli ostacoli e che solo scoprendosi rotto vide uscire i propri ostacoli da dentro, è l'unica vera esperienza religiosa. Che dura un attimo, ma si cerca di rivivere e ripetere per tutta la vita. Non solo io per lui e lui per me, ma come figli, genitori, amici, colleghi, esseri viventi, l'esperienza dell'amore salva. Ma è necessario che sia io per lui e lui per me perché da lì nasce e torna, per me, quell'amor che move il sole e l'altre stelle. 



PS: grazie a tutti quelli a cui ho voluto bene, senza mai saperlo fare abbastanza bene. Grazie a tutti quelli che hanno provato e provano a volermi bene, senza che io glielo abbia o glielo permetta. 

martedì 3 gennaio 2017

Credere in Dio non serve a niente. Ed è una buona notizia, abbiate fiducia.

Titolo molto reciso, direte, per il primo post dell'anno, dopo diversi mesi di assenza.
Be', avete ragione. Ma credo di avere le mie buone ragioni per affermarlo.
Se mi chiedeste se credo in Dio, vi risponderei di no. Perché purtroppo quando usiamo questa parola, Dio, abbiamo quasi sempre in mente una costruzione tutta umana. E quando usiamo la parola credere stiamo limitando la forza di Dio.
Un Dio che ha trovato rifugio nelle pagine di libri che si considerano ispirati o addirittura scritti da Dio. Eppure è evidente che portano in sé le tracce culturali e umane che li hanno creati, sebbene vi si possano trovare perle di grande spiritualità.
E' evidente che quando parliamo di Dio parliamo di qualcuno che dovrebbe salvare noi in quanto bravi devoti, che crediamo nel Dio giusto, e dannare gli altri che non credono in lui come lui ha stabilito (il fatto che ci siano testi sacri così diversi tra di loro significa affermare che per un credente uno solo sia il Dio vero e che gli altri, purtroppo per loro, sono miscredenti che prima o poi dovranno giungere alla verità, o perire nell'errore).
E' evidente che chi crede in Dio non crede altro che in un sistema di dogmi in cui gli è vietato guardare, pena l'ira di Dio.
E' evidente che i riti e i culti ripetuti fin dalla prima infanzia, non spiegati, non vissuti, non compresi, non possano aiutare a incontrare Dio,
E' evidente che la religione per come è ora abbia bisogno di far leva sulla paura dell'inferno per convincere a credere in Dio. Peccato che sia ormai evidente che con la paura non si educa veramente nessuno, nemmeno ad amare Dio, anzi.
E' evidente che per molti devoti Dio non sia altro che colui che dovrebbe risolvere i loro problemi, perdonarli quando sbaglino, sostenerli quando sono bravi ed è evidente che chiunque si consideri devoto è convinto che Dio gli debba dei favori in quanto appunto bravo devoto, e si arrabbierà e indignerà quando questi favori non arriveranno nel modo in cui lui ha stabilito che debbano arrivare.
E' evidente che le religioni siano strumenti di potere (tutte le religioni hanno cercato di espandersi, anche con le armi) e che il potenziale distruttivo delle guerre di religione non si è ancora esaurito, purtroppo.
E' evidente che sebbene il contributo delle religioni allo sviluppo dell'umanità sia stato gigantesco (le prime regole morali, la devozione, il desiderio di una vita che non sia animalesca) è un contributo che dovremmo avere il coraggio di abbandonare, perché l'umanità non è più nell'infanzia e non ha più bisogno di storie ma è ormai adolescente o addirittura adulta e ha bisogno di altro, di verità.
E' evidente che chi crede in Dio si ritiene salvato anche se non fa nessuno sforzo per vivere fino in fondo alla sua anima secondo ciò che la sua religione comanda. Spesso crede che i riti e l'esteriorità lo salveranno, sebbene anche nei libri sacri questo sia recisamente negato.
E' evidente che chi crede in Dio vede ovunque la corruzione, ha paura di chi la pensa diversamente e di chi vive diversamente perché le sue credenze sono talmente basate sulla paura da essere superficiali, possono crollare da un momento all'altro.

Ciò che a me pare evidente è che serve avere fiducia in Dio. Dio non ha bisogno che io creda in lui, se c'è crede abbastanza in se stesso da fare quello che gli pare, sia che io creda sia che io non creda. Però avere fiducia in lui come principio organizzatore delle cose potrebbe essere sensato.
Avere fiducia in Dio significa rinunciare alla pretesa che io sappia dire che cosa sia vero o falso su di lui, sui modi in cui vuole essere pregato, sui libri che ha scritto o non ha scritto.
Avere fiducia in Dio significa smettere di giudicare secondo categorie che non possono che essere dell'ego: buono come conveniente per me, cattivo come non conveniente per me (o la mia famiglia o il mio gruppo sociale, è uguale).
Avere fiducia in Dio significa non aspettarci che Dio ci dia ciò che noi vogliamo, non chiederci che cosa di male abbiamo fatto per meritarci la sua punizione ma fermarsi a guardare le nostre azioni e vedere i loro risultati e avere il coraggio di cambiare le azioni per avere altri risultati. Significa accettare che tutto è perfezione, perché tutto ha una lezione da insegnarci, se stiamo ad ascoltarla invece di sovrapporvi la nostra angusta visione.
Avere fiducia in Dio significa leggere in tutti i testi sacri qualcosa di buono e capirli secondo il doppio parametro dell'umano e dello spirituale, e discernere ciò che si può lasciare andare, ora che come umanità siamo quasi tutti adulti, e che cosa invece sarebbe il momento di approfondire.
Avere fiducia in Dio significa usare la ragione per conoscere il mondo.
Avere fiducia in Dio significa allargare il cuore perché lui lo possa colmare e perché vi entrino non solo i nostri cari, ma tutta l'umanità, visto che la separazione è solo una povera, misera illusione.
Avere fiducia in Dio significa vedere che possiamo vivere accanto a chi la pensa diversamente da noi, a chi crede in Dio in un altro modo, a chi non crede e non sentirsi interiormente costretti dalla paura della corruzione ad odiare, disprezzare, demonizzare il diverso.
Avere fiducia in Dio significa avere fiducia in noi stessi: saremo noi a toglierci dai problemi e a creare un futuro migliore, anche correndo rischi, ma sicuramente non sarà l'intervento magico di Dio a farlo.
Avere fiducia in Dio significa educare nel rispetto e nell'amore e non nella paura: educare al bene e non educare contro il male.

E' possibile che Dio non esista, ma se concedo fiducia a Dio senza giocare alle scommesse come faceva Pascal, mal che vada concederò fiducia alla vita. E quando concedi fiducia a qualcosa, non una fiducia ingenua, ma una fiducia sensata, aperta, capace di cogliere i segnali che arrivano, di solito viene ripagata.



domenica 11 settembre 2016

Una somma di piccole cose/1

La piantina di basilico cresciuta per caso nel vaso della betulla ormai morta. Non l'ho piantata, non me l'aspettavo. E' bello averla, ma non ne avevo proprio bisogno nel senso stretto della parola bisogno.
Ne avevo avute altre, morte, seccate così per il caldo, per trascuratezza, per caso, per il terreno sbagliato.
Ora questa è rigogliosa, ci ho messo un ugello dell'irrigatore a prendersene cura. Ci strofino le mani e sento l'odore sulle dita. Ne prendo qualche foglia per condire i pomodori. Ho tolto persino le erbacce intorno, stamattina
E ogni volta che la vedo mi ricordo che programmare la vita è uno sterile esercizio di presunzione. Bisogna lasciar fare al vento.



martedì 2 agosto 2016

Ciao ciao bambina

Un numero sconosciuto mi chiama. E' una donna, ha trovato un gatto che potrebbe essere Apache, il mio micio pirata sparito da una settimana. Vado a vederlo.
E' un falso allarme. Apache ha il naso rosino, sempre sporco di schifezze e gli occhi verdi. Questo no. Però lo coccolo lo stesso.
Per consolarmi vado alla gelateria dove ieri ho lasciato il cartello con le foto di Apache e il mio numero e non ho nemmeno preso il gelato da tanto ero provata. Provo lime e zenzero e un altro gusto tropicale. E' buonissimo. Ci potrei andare più spesso.
Me lo mangio seduta alle panchine del parchetto. Una signora accanto a me sta cercando di cantare una canzone.
Le sue amiche ridono. Sono vecchie. Milanesi come chi lo è diventato e parla il dialetto con accenti che sanno di Mediterraneo e non di polenta.
D'improvviso mi ritrovo a cantare con lei "vorrei trovare parole nuove, ma piove piove sul nostro amor".  La donna, resa fiduciosa dal mio accompagnamento, alza la voce stonata (ececredo, ha l'apparecchio acustico) per un poderoso finale. Una famiglia indiana ride, la mamma con la mano a coprire la bocca. Due ragazzini sudamericani alzano la testa dagli smartphones. In effetti è buffo.
Ed è un momento gratuito ed irripetibile. Mi emoziono. Mi viene da piangere, ma non piango.
Non è un pianto di tristezza. E' come se fosse venuto un momento di gratitudine estrema. Per le perdite che ho attraversato, che sono segni di cose vissute. Cicatrici che valeva la pena farsi. Sempre e comunque.
Non avrei mai pensato che adottare un gatto potesse insegnarmi tutte queste cose. Su di me e sugli altri animali, a quattro a due zampe. Su come gestire il passato, vivere il presente e respirare il futuro. Su come accettare il bianco e il nero mio, suo, degli altri.
Girare per il quartiere da due giorni è una delle esperienze più potenti che abbia fatto. Viviamo sempre a metà. Sempre chiusi nel nostro io. Sempre timorosi e incazzati, con la sensazione che ci abbiano rubato la vita e forse è così, ce la siamo fatta fottere.
Chissà se troverò Apache. Chissà se quando lo troverò avrò davvero il coraggio di portarlo in campagna. Chissà se avrò il coraggio di accettare che non torni. Non lo so. Però so che adesso vado a dormire che poi più tardi, quando ci saranno meno rumori in giro, uscirò a cercarlo. E mi sembra infinitamente più sensato che uscire per andare da qualsiasi altra parte. E se per voi è folle perché è solo un gatto, io non posso che augurarvi un'esperienza così intensa da aprirvi il cuore e farvi fare pace con voi stessi.
Perché Apache questo ha fatto a me. Mi ha permesso di curarmi. Mi ha permesso di amare qualcosa per come era e in cambio non c'erano nemmeno dei grandissimi gesti d'affetto. C'erano, ma quando voleva lui. E per me andava bene. E io andavo bene a lui. Io non ero mai stata capace di sentirmi adeguata. Eppure, lo sono stata. Io non ero mai stata in grado di non essere il centro della relazione, Invece al centro c'era lui. Io non ero mai stata in grado di lasciare andare. Invece, ho lasciato che le cose fossero come erano. Io non ero mai stata capace di accettare qualcuno che non mi venerasse per la mia intelligenza, le cose che so e altre minchiate. Apache non aveva bisogno di niente, di nessuna dimostrazione. Al massimo di qualche concreta scatoletta di cibo puzzolente Io, che volevo programmare sempre tutto, ho imparato a prendere le cose come sono e gioire tantissimo nell'istante. Io che ho sempre avuto paura di prendere decisioni, ho deciso che lo volevo tenere e lasciare libero ed ho imparato a seguire l'istinto, anche quando potrebbe far male.
Apache è stato il catalizzatore di insegnamenti che non volevo vedere e non potevo accettare ma che erano già presenti, in potenza, nelle relazioni con le altre persone. E' servito un quadrupede peloso per insegnarmi che tutti quelli con cui interagisco sono miei maestri.
Io ho sempre mollato oppure mi sono attaccata alle cose con le unghie e con i denti. Ora faccio tutto ciò che posso per trovarlo. Se lo troverò, anzi, quando lo troverò, sarò felice. Se non lo troverò, lascerò andare, e mi terrò una nuova, preziosa, brillante cicatrice.


giovedì 7 luglio 2016

Nietzsche guarda i gatti e i gatti guardano nel sole, mentre il mondo sta girando senza fretta


The natural is sufficient. If one strives, he fails.Lao-Tzu
We do not possess an 'ego'.
We are possessed by the idea of one

Wei Wu Wei 
Stavo impazzendo perché il mio gatto Apache non accettava il nuovo gattino, Zen, trovato sotto una macchina. Era furibondo con lui e con me, ringhiava e soffiava tutto il giorno. E allora io ho comprato il diffusore di ormoni materni facciali, ho separato le ciotole del cibo, le lettiere, li ho tenuti lontani per una settimana, coccolavo Apache con l'unico risultato di farlo innervosire ancora di più. 
Poi, sono andata al mare per 5 giorni. Li ho chiusi in casa, con una signora che un giorno sì e uno no passava per cibo acqua e altre necessità. Sono tornata e ora Apache e Zen hanno trovato un loro equilibrio. Apache fa di nuovo le fusa e Zen gli mordicchia la coda. Sono quasi amici, direi. 
Tutto questo mi fa pensare.
Che le cose vanno sempre come devono andare.
Che mi sopravvaluto come gattara. 
Che sopravvaluto in generale il potere delle mie azioni: mi agito perché le cose funzionino e ciò di solito complica tutto.
Perché tutta questa agitazione, che forse non è solo mia, ma di molti? Ci agitiamo tantissimo per ottenere le cose, e facendolo alteriamo le condizioni di partenza e aggrovigliamo tutto.
Probabili motivi:
non ci fidiamo abbastanza di noi stessi, quindi dobbiamo fare, agire, provarci al massimo;
non ci fidiamo abbastanza dell'Universo, che di solito fa che le cose vadano per il meglio, o perlomeno per la soluzione più semplice;
dobbiamo provare il nostro ego: siamo bravi, siamo in gamba, ce la facciamo, otteniamo risultati. 
Il problema è sempre lì: vivere per l'ego. Per l'ego a volte  facciamo cose molto brutte, ma anche cose che apparentemente sembrano belle. Per l'ego siamo gentili, attenti, giusti, carini, non ci arrabbiamo mai, non ci emozioniamo, fingiamo che non ci piaccia scopare, mangiamo con i gomiti stretti anche quando stiamo morendo di fame, non mandiamo affanculo chi se lo meriterebbe, accontentiamo tutti, assecondiamo l'idea che vogliamo che gli altri abbiano di noi. Per l'ego ci allontaniamo da noi stessi, dal nostro centro e abbracciamo un'immagine falsa, rinunciamo ai nostri desideri e coltiviamo mazzi di rancore. 
Ma voler parere buoni non significa esserlo e non significa nemmeno che i risultati dei nostri sforzi siano buoni. Le mie intenzioni nel prendermi cura di Apache e Zen erano buone, ma i risultato no. Andare via 5 giorni lasciandoli soli è stata una scelta che avrebbe fatto gridare all'abbandono di animali le gattare più dure e pure, perché sai, in un momento delicato come quello dell'inserimento di un gattino nuovo in casa, bisogna essere lì. Eppure l'azione buona ha dato risultati cattivi, l'azione sbagliata risultati ottimi. 
L'ego è la vera causa della morale degli schiavi di cui parlava Nietzsche. Vogliamo sembrare buoni, nascondiamo la nostra forza per non sembrare stronzi, ma in realtà vogliamo manipolare. E soprattutto non vogliamo che gli altri pensino che siamo stronzi.
Esempio: l'altro giorno un tizio con cui lavorai mille anni fa, a little weird, mi scrive per la centordicesima volta su FB. Per anni l'ho ignorato e accettato alcuni poke (ma, per dio,  ancora si fanno i poke?), aggiornamenti non richiesti sulla sua vita, qualche commento sulla mia bacheca, velati inviti a vedere che maschio era. Mi sono resa conto che mi ero convinta che non gli dicevo di mollarmi perché non volevo farlo rimanere male. Era una scusa per non sembrare stronza ai suoi occhi. Ma non avevo più voglia di sentirlo e di trovarmi di fronte ai suoi imbarazzanti messaggi. Ne avevo facoltà, quindi ho deciso di cancellarlo dagli amici. 
Perché dobbiamo sempre lottare per essere migliori di ciò che siamo? Non è più facile accettare ciò che siamo e vedere che man mano questa accettazione crea spazio per un miglioramento naturale? Non significa vivere come bruti, eh. Significa usare quell'amorevole accettazione che il nostro ego beneducato usa per tutti innanzitutto per noi stessi, lasciandoci liberi, accettando le nostre reazioni naturali, dicendo sì e no quando vanno detti. 
Credo che un mondo in cui tutti vivessimo fino in fondo la morale dei padroni potrebbe essere un filo complicato. Ma per arrivare ad una moralità che tenga insieme me stessa e il mondo, bisogna assolutamente passare da una moralità che se ne freghi dell'ego che ci vuole buoni, e che vada verso ciò che veramente è buono per noi. 
Serve che smettiamo di mascherare i nostri desideri, reprimerli, travisarli e invece ci sentiamo forti abbastanza da viverli tutti e temperarli per poter avere una vita comune. 
Chi invece non ha il coraggio di sentire i suoi desideri, di agire un po' meno ma più pienamente, senza paura del giudizio altrui delle consuetudini di ciò che direbbe nonna sembrerà anche buono visto da fuori, ma andrà per il mondo emanando effluvi rancore che cercherà di camuffare sotto parole di bontà universale al profumo di rosa. 





martedì 28 giugno 2016

A tutti quelli che credono di non farcela

Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto. Dal Vangelo di Luca, 11, 9-10

E mi includo nella lunga lista di quelli che non credono di farcela, anche se i fatti dicono che ce l'ho fatta, ce la sto facendo e non ho nemmeno combattuto così forte.
Negli ultimi 24 mesi ho attraversato un piccolo personale inferno. Sembrava che da ogni parte mi girassi le cose cadessero a pezzi.
Un breve riassunto per chi ha perso delle puntate.
- ho perso un girino che stava nella mia pancia, come se fosse fatto di niente, e invece era fatto, se non d'amore, di follia d'amore
- il fidanzato mi ha lasciato. Se n'è andato di casa, senza preavviso e fidanzandosi dopo due settimane con quella che negava di scoparsi ma io lo sapevo che se la scopava. Non mi ha mai più cercata nemmeno per salutarmi.
- si sono suicidati due ragazzi della mia età, non amici ma quasi, buttati sotto il treno per la disperazione
- ho visto persone a cui voglio bene lottare contro tumori di vario tipo e, in un paio di casi, uscirne sconfitti
- ho visto una persona che amo immensamente prendersi il cazzo di HIV
- ho visto una persona che amo immensamente scendere in un inferno di paranoie incontrollabili e ho provato a farmi roccia su cui potesse appendersi per risalire almeno un po'
- ho riaperto posti del passato che avevo chiuso in una polveriera, e non sono saltata in aria
- sono stata in India da sola, non mi sono fatta sposare da nessuno dei medici indiani che mi si sono proposti e sono sopravvissuta ad un'intossicazione alimentare con visioni annesse
- ho imparato a chiedere al mio corpo che cosa ha quando si ammala, e praticamente non prendo più medicine
- ho avuto visioni della realtà ultima dell'universo senza friggermi il cervello
- ho imparato il perdono
- ho preparato due orrendi concorsi per l'immissione in ruolo come docente, di cui almeno uno passato
- ho visto ragazzini devastati da genitori che si meriterebbero di perdere la potestà genitoriale e non ho sbroccato
- ho imparato a depennare, una via l'altra, le persone che non aveva nessun senso assecondare nei loro deliri di controllo o svalutazione o oppressione, e l'ho fatto senza isterismi, ho semplicemente preso la porta, che era sempre stata lì
- ho imparato a non mettere le mani al collo (e non averne nemmeno la tentazione) a chi questiona continuamente la mia vita. Spesso sono le zie, ma non solo.
Ho visto anche un sacco di bellezza e amore e pulizia e cose che mi hanno smosso le viscere anche quando pensavo di essere paralizzata. Però sono stati 24 mesi di fatica. Ci sono ancora delle cose che hanno bisogno di essere affrontate completamente, ma sono qui.
Mi sembra di essere cresciuta di 10 anni. Eppure ancora sorrido, non ho troppe rughe di preoccupazione in mezzo agli occhi e soprattutto non voglio più avere un cazzo per cui sperare che le cose vadano meglio. 5 o 6 anni fa, non mi ricordo precisamente quando, ero sdraiata su un letto con il timore di volare via e dissolvermi nel nulla ed ero infelice, profondamente infelice. Ero arrabbiata, rancorosa, passivo-aggressiva, piagnona, terrorizzata dalla vita e dalle conseguenze di ogni azione. E pensavo che fosse normale. Pensavo che se avessi ottenuto alcune cose tutto si sarebbe risolto. Che minchiata.
Non è stata la speranza a salvarmi la vita, ma l'accettazione del presente. Qualsiasi sia il presente.
Accettazione significa piangere tutte le lacrime che vogliamo piangere, scrivere tutto ciò che vogliamo scrivere, lavorare al meglio, fare tutte le capriole di gioia che riteniamo necessarie per appagare lo spirito, stare in silenzio per ore, parlarne altrettante, sbronzarsi o andare a meditare. Accettazione totale di quello che c'è, di quello che è preparato per noi, perché abbiamo la consapevolezza che possiamo affrontarlo. Se è davanti a noi, è per essere affrontato, e lo sapremo fare.
La speranza è una trappola per poveri illusi, che si illudono di qualsiasi cosa: il guru gli darà la risposta, ci sarà la vita eterna, arriverà il principe azzurro o Geeg Robot d'Acciaio a salvarle, avranno successo, un lavoro migliore, la prossima riga di bamba li renderà immensamente liberi e felici, la vacanza dei sogni li cambierà eccetera eccetera eccetera. La speranza è quella cosa che rende gli occhi delle persone in metropolitana vitree e opache e senza luce. La presenza li rende invece scintillanti e vivi, sia nella gioia che nella tristezza.
Non esiste la speranza. Esiste una cupa disperazione al fondo di ognuno di noi in cui prima affondiamo e meglio è. Bevetela. Sputatela, tossendo e vomitandola. Trovate qualsiasi cosa vi faccia stare bene e fatela, il più spesso possibile. Concludete i vostri progetti (ecco, io su questo sono stata carente ma arriverà il momento anche per questo) o inventatene di nuovi. Cercate le risposte non negli altri e nemmeno nella vostra testa. L'unico posto in cui dovete guardare è il vostro corpo. Ascoltatelo. Lui sa tutto. Lui siete voi. Smettetela di pensarvi migliori o peggiori del vostro corpo.
Non aspettatevi un cazzo. Avrete tutto, niente di meno. L'universo è a disposizione, ma davvero pensiate che darà qualcosa a chi invece di chiedere si lamenta, invece cercare si rotola nella sua miseria e invece di bussare gira le spalle alla porta?
Non siate ridicoli. Tuffatevi, ora.



domenica 26 giugno 2016

Sulla stramberia

Non ho ancora capito una cosa: ma quando mi dicono, e me lo dicono spesso, che sono stramba, si tratta di un complimento, una constatazione amichevole, una sorpresa, un fastidio, una paura, un checacchioneso? E poi, sono così stramba? Che cosa mi rende stramba anche quando non sto facendo niente che mi sembra strano? Perché non mi accorgo di essere stramba, anzi mi danno fastidio le persone che vogliono essere strambe a tutti i costi? Ma non è che anche io voglio essere stramba a tutti i costi e nemmeno me ne accorgo? (questa ultima ipotesi mi fa tremare le vene e i polsi...)
Io in realtà trovo tutti strambi, anche le persone normali mi sembrano strambe perché troppo normali. Perché se uno si sforza di essere normale, è strambo. Non puoi provare ad essere te stesso, a dire ciò che pensi, a non essere telecomandato dai tuoi dovrei, dalle tue paure, dalle tue illusioni, da ciò che ti chiedono di essere?
Forse mi dicono sono stramba perché non ho la tv. Ma non credo sia per quello, quasi nessuno dei miei amici ha la tv.
Forse mi dicono che sono stramba perché esterno più di altri pensieri semi imbarazzanti che abbiamo tutti, perché il mio vangelo è vivere vicina ai miei sentimenti. Se lo facessimo tutti forse smetteremmo di farci mille paranoie sull'essere normali. Forse smetteremmo anche di aver paura di far entrare gli altri nel nostro campo di gioco. Forse potremmo dire ciò che sentiamo. Forse potremmo persino non dirlo e farlo capire e capire da soli ciò che provano gli altri. Forse potremmo accettare fino in fondo il nostro cuore. Forse potremmo essere un po' più liberi. Senza sforzarci nemmeno troppo, perché tanto siamo tutti strambi a modo nostro.
Ma non sono ancora sicura che mi dicano che sono stramba per questo. Sinceramente non lo so. Però evidentemente lo sono.


sabato 25 giugno 2016

Strani incontri del venerdì sera: Beppe il mago e la fiducia incondizionata

Ieri sera stavo salutando il mio amico Francesco fuori da un locale, quando ci si avvicina un tizio che ci dice se può farci un gioco di lettura del pensiero.
Diciamo: ok. Quindi Beppe il mago, questo il nome del tizio,  ci chiede di pensare ad un numero o ad una forma geometrica e ne azzecca mezza al terzo tentativo. Però resta sereno e decide per una lettura della mano improvvisata. Nessuna divinazione plausibile, però Beppe il mago resta sempre bello sereno. A me come sempre viene il dubbio che magari ha ragione lui anche se io non lo so, però in effetti non c'azzeccava niente.
Stiamo per andarcene davvero quando ci dice: oggi ho capito una cosa. Ho capito che Dio da noi vuole solo una cosa, che ci fidiamo di lui. Perché se ti fidi niente di male può accaderti per davvero. Se invece hai paura, sei pieno di dubbi e metti in questione che Dio voglia per te solo il meglio, allora soffrirai. Però la sofferenza ti farà capire che devi fare una cosa sola: fidarti. Ma non di lui, non nel senso di avere fede in qualche religione, ma proprio del fatto che sei vivo e che andrà tutto bene.
Grazie, Beppe il mago. Una cosa l'hai azzeccata in pieno.
Serve fiducia. Come il bambino che inizia a camminare non mette in discussione che la terra scompaia mentre lui alza il piedino e nemmeno mette in dubbio che ce la farà ad imparare, così dovremmo e soprattutto potremmo vivere noi adulti, con un atto di fiducia totale.
Atto di fiducia che comporta che al nostro ego disfattista e iperprotettivo e che innalza separazioni crederemo sempre di meno, solo al momento del bisogno reale. Atto di fiducia che è comporta una resa, che è l'atto più coraggioso che possiamo fare.


venerdì 10 giugno 2016

La leggerezza della gravità

Se semplicemente si riuscisse a lasciar andare le cose, ci si accorgerebbe che il male si esaurisce, e si afferma il bene.
Carl Gustav Jung
Abbandonar(si). 
Con cautela, eh, che se svieni di colpo batti la testa. Che se non ti sei preparato un posto confortevole dove farlo più che una resa alla vita diventa un harakiri sui coltelli che hai preparato per te stesso. 
Lasciarsi andare, come quando ci si addormentava da piccoli.
Poco a poco si perdevano le forze e la presa. Poco a poco la leggerezza della gravità ci attirava e ci consegnavamo, inerti, inermi e fiduciosi, al sonno. 
Adesso invece a volte nel processo di resa sobbalziamo, tesi in uno spasmo che ci chiede di riprendere il controllo. Lascia fare, lascialo accadere. Ma non credergli. Non stai per cadere. 
Adesso siamo convinti che tutto sia da controllare. Siamo convinti che vivere ci ucciderà. Siamo convinti che non ci dovrebbe essere spazio per niente che non sia deciso, voluto, programmato, pianificato, analizzato. 
Siamo totalmente disconnessi dall'essere, che è puro divenire, e ci aggrappiamo all'avere. E quando molliamo la presa, perdiamo anche l'avere che stringevamo in mano e ne siamo terrorizzati.  Quando molliamo la presa, però, ci tuffiamo nell'essere, dove ci si può perdere e ritrovare ad ogni secondo. 
Let it go. Qualsiasi cosa sia, lasciala andare. 
Let yourself be. Lasciati essere.
Let it happen. Lascialo accadere.


giovedì 2 giugno 2016

Polvere di stelle variamente aggregata

Ieri sera sono andata alla lezione di yoga settimanale.
A parte il fatto che oggi non riesco nemmeno a tenere in mano il telefono per via di una postura dinamica che mi ha decisamente irrobustito i bicipiti, è successa una cosa.
Durante la meditazione il mio corpo si è pian piano sciolto. Ho avuto la netta percezione di essere inizialmente un arrosticino saldamente, tenacemente, ostinatamente attaccato al suo spiedino, come se in me tutto fosse contratto, pronto a reggere un colpo, chiuso, in difesa, attaccato a qualcosa. Qualcosa cosa? Non lo so, ma era come se fosse il centro del mio corpo.
Era un qualcosa che sotto quella morsa stava morendo. Credo che quel qualcosa fosse energia. Ma la domanda è: che energia è un'energia bloccata?! Anche nelle pile Duracell l'energia immagazzinata, se non usata, dopo un po' sparisce.
Io mi stavo avvoltolando stretta come un boa costrictor (ma l'imamgine giusta è proprio quella dell'arrosticino) attorno al "mio" centro, sperando di sorreggerlo. In realtà lo stavo poco a poco sfiancando, rendendo cianotico per la mancanza di ossigeno e vita.
Ora, questa sensazione di liberazione non è la prima volta che la vivo. Però erano mesi che vivevo senza un'apertura, senza mollare, senza respirare davvero.
Che cosa racconta questa sensazione?
Uno: che mi devo rilassare.
Due: che il rilassamento imposto mentalmente non serve ad una cippa. Se il corpo si può rilassare, allora la mente segue.
Tre: Il corpo si può rilassare se respiriamo. Se non respiriamo moriamo. Anche se siamo vivi, quando respiriamo male, in realtà siamo morti.
Quattro: questa sensazione di rilassamento è piacevolissima ma fa anche una paura fottuta. E se mollando il mio spiedino io, che sono un arrosticino, svanisco, mi affloscio, cambio forma e quindi nome?
Cinque: ora che ci penso bene: non sono un arrosticino. Sono un essere umano libero e potenzialmente felice ed illimitato ma sono tanto tanto affezionata al mio spiedino tanto da non volerlo mollare.
Sei: preferisco continuare ad illudermi di essere un arrosticino o arrendermi alla piacevole evidenza che mi ricorda che sono un essere umano?
Sette: la risposta ce l'ho. Ho passato dei mesi di merda in compagnia del mio spiedino, credendomi un arrosticino: mo' bbasta.
Otto: capire le cause per cui ho preferito essere un arrosticino invece di un essere umano è stato fondamentale, così come il verificarsi di una serie di eventi (che definirei casuali ma che non hanno niente di casuale) che mi hanno preparato a rivivere questa sensazione
Nove: essere un arrosticino ha di bello una cosa: che non si sceglie un cazzo. L'arrosticino vive semplicemente: lo costruiscono, lo vendono, lo si mangia, lo si digerisce e bene così. L'essere umano deve scegliere, in particolare deve scegliere una cosa: di essere libero. Altrimenti si illude di non essere un arrosticino pur essendolo di fatto
Dieci: ma come è possibile che questo ammasso di atomi di cui sono fatta, che non sono altro che polvere di stelle esattamente come un arrosticino, possa pensare tutte queste cose e sapere di essere, senza ombra di dubbio, diverso da un arrosticino?




martedì 17 maggio 2016

Istruzioni per un corteggiamento, soprattutto per chi ha oltre 30 anni

Non ho una relazione stabile da qualche tempo. A parte che avevo un rospetto da digerire e mi sono presa tempo per farlo,  i tempi non sembrano felici per avere una relazione. Il tempo storico, il tempo anagrafico e ultimamente nemmeno quello meteorologico. Eppure certo che mi piacerebbe. E prima o poi accadrà. Nel frattempo ogni tanto esco con qualcuno, con risultati abbastanza agghiaccianti, ma indubbiamente divertenti e affascinanti per la loro assurdità. 
Da queste uscite, grazie all'osservazione e all'auto-osservazione, ho condensato una breve lista di cose che mi sembrano utili, in modo da vivere un po' giocosamente questa fase della mia vita, senza però fingere che non mi piacerebbe incontrare un uomo che mi piaccia davvero e a cui piaccio davvero, con cui serenamente fare progetti, figli e quelle cose lì. Ho persino imparato a capire in fretta, basta il tempo di un drink, chi funziona per me e chi no, chi mi accende delle cose e chi me le smorza senza via di scampo.
Ecco quindi un elenco, incompleto ma credo chiaro. 
1. Se corteggiate, siate coraggiosi. Le vostre intenzioni sono comunque palesi e cercare di nasconderle per non farvi sgamare vi rende vicini al patetico
2. Uscire una sera con uno/a non significa firmare un patto di sangue
3. Ad ogni modo, sparire dopo una sera fa di voi un/una codardo/a. Meglio dire una cosa banale tipo: sono stato/a bene, ma non funziona, grazie, auguri, stammi bene. 
4. Non serve fare lo showing off dei risultati raggiunti nella vita né voler sembrare dei geni/talenti/fighi. Ciò che siete, bastate. 
5. Fregatevene del successo in vista di un risultato a lungo termine, e rallegratevi del momento in se stesso. Terribile uscire con persone che hanno scritto in faccia: per favore pigliami tu, che non ne posso più. Le cose accadono da sé, senza manipolazioni o proiezioni assurde. 
6. Se una/o non risponde ad un messaggio magari ha una vita, o dorme, o magari vuole pensarci 5 minuti, o magari in quel momento non gli/le va. E' un suo diritto, you know?
7. Stile nei messaggi. A parte l'uso del congiuntivo, è auspicabile anche capire che cosa dire e quando. Il sexting come primo approccio possiamo lasciarlo agli adolescenti. 
8. Non messaggiate contemporaneamente 12 persone diverse, altrimenti tutto diventa più difficile. A meno che avere 12 relazioni contemporaneamente sia effettivamente il vostro obiettivo relazionale. 
9. E perlomento non messaggiate con altre "riserve" mentre siete ad un appuntamento
10. Le donne alla prima uscita possono accettare di farsi pagare un drink. Gli uomini possono provare a pagarlo. Ma anche: sticazzi. Dobbiamo accettare un cambiamento copernicano dei ruoli maschili e femminili che abbiamo interiorizzato come normali e non è detto lo siano. 
11. Il modo in cui si accetta un rifiuto dice di noi molto più di altre cose. Guardatevi mentre fate i/le passivo-aggressivi/e se dopo due volte non c'è la terza. Contegno, signori/e, stile, e se non ce la fate: psicoterapia finché ce la farete. 
12. Se siete fidanzati/e e uscite con un'altra persona, ditelo. L'altra persona potrà pure decidere di essere vostra amante, ma ha il diritto di saperlo. In più, se si sentirà presa in giro, potrete sempre dirle/gli: "Tesoro, te l'avevo detto".
13. Se vi siete allontanati, tornare sul luogo del delitto dopo un po' richiede un grande stile. A volte una grande faccia come il culo. E spesso un/a babbeo/a dall'altra parte. 
14. Se uno/a vi piace, fateglielo sapere. Se non vi piace, siate gentili nel dirlo. 
15. Non prendetevi così sul serio, davvero. No, non serve. 


domenica 24 aprile 2016

Il disordine di casa mia, la struttura dell'occhio e l'esistenza di dio

L'uomo deve usare la propria mente per liberarsi, non per degradarsi.
La mente è amica dell'anima condizionata, ma può anche essere la sua nemica.
Per colui che ne ha il controllo, la mente è la migliore amica,
ma per colui che ha fallito nell'intento, diventa la peggiore nemica.
Bhagavad Gita VI, 5-6

Prima ero cieco e ora ci vedo
Vangelo secondo Giovanni - 9, 24

Tutto ciò che ho veduto mi induce a confidare nel Creatore per tutto ciò che non ho veduto
Ralph Waldo Emerson

Un lunedì sì e un lunedì no viene a casa mia Esperanza, una simpatica signora che in tre ore rende casa mia un posto degno di essere chiamato casa.
Io ci provo a mantenere ordinato, ma mi accorgo che qualche ora prima che Esperanza arrivi sistemo mucchi di vestiti, pile di piatti sporchi, asciugamani a metà tra lo sporco e l'utilizzabile, i libri sparsi in ogni dove (non so leggere un libro alla volta quindi ce ne sono sempre almeno tre, inoltre in questo periodo sto pure studiando per il concorso docenti quindi ho libri, evidenziatori, fotocopie, verifiche da correggere in ogni dove).
Dopo che ho vagamente riordinato, Esperanza arriva, spolvera, strofina, spruzza, pulisce, io porto giù la spazzatura e casa sembra nuova.
Perché la casa ogni due settimane è disordinata e sporca (vabbe', mica che vi deve far schifo entrare, però insomma, nemmeno splendente)? Se mi rispondete: perché sei disordinata non avete capito niente.
E' vero che sono disordinata, ma in realtà io sono più che altro pigra. Sistemare un vestito nell'armadio (anzi, nella cabina armadio che mi piace tanto) richiede più lavoro rispetto a sistemarne 10 insieme. Per lavoro intendo proprio la definizione fisica. Per lavoro intendo proprio lavoro in senso fisico, ovvero, come lo definisce wikipedia: "In fisica, il lavoro è il trasferimento di energia cinetica tra due sistemi attraverso l'azione di una forza o una risultante di forze quando l'oggetto subisce uno spostamento e la forza ha una componente non nulla nella direzione dello spostamento".
Sistemare un solo vestito per volta per 10 volte comporta che io vada avanti e indietro dalla stanza alla cabina armadio 10 volte. Se invece li sistemo tutti in una volta dopo averli ammucchiati sulla sedia in camera, posso fare un solo viaggio. Avrete quindi capito che io seguo solidi principi di risparmio energetico, e anche che se il lavoro ha a che fare con l'energia, per risistemare la casa è necessario che venga utilizzata una certa energia, quelle che io e soprattuto Esperanza (quale nome più sublime per la mia salvatrice?) immettiamo nel sistema. 
La casa, con la giusta immissione di energia è quindi pulita. Ma perché non resta pulita? Perché io ma anche Apache, il vento che trasporta polvere dalle finestre aperte, i miei ospiti che vengono a cena, il sugo che salta sul fornello siamo tutte cause di disordine, ovvero, detto in termini quasi scientifici, aumentiamo l'entropia del sistema. La nostra energia vitale non si dispone quindi in modo che tutto resti ordinato (gli spruzzi del sugo non finiscono sullo strofinaccio da soli, i peli di Apache non finiscono nella spazzatura, per quanto mi possa esercitare nel lancio dei vestiti questi non finiranno ben piegati nell'armadio da soli). Perché? Perché "nelle trasformazioni reali, irreversibili, l'entropia totale, sistema ambiente, aumenta sempre", come riporta la Treccani
Orbene. 
Oggi al corso per insegnanti di yoga studiavamo il terzo chakra e gli organi da questo controllati, tra cui l'occhio. Ad un certo punto l'insegnante dice una cosa sul fatto che le cellule del cristallino, la lente dell'occhio, per rendere il cristallino appunto trasparente come cristallo hanno perso nucleo e mitocondri. Resto sbalordita dalla finezza della natura. Leggendo on line alcuni siti tra cui questo (libri di medicina non ne ho) scopro che si tratta di una forma speciale di apoptosi, ovvero di morte programmata delle cellule. 
Quindi pensando alla faccenda dell'entropia che fa diventare casa mia un posto non gradevolissimo in soli 15 giorni e fino all'arrivo di Esperanza, e paragonandolo alla meraviglia di cellule che senza che nessuno gliel'abbia detto e senza nemmeno un cervello (quello di cui noi andiamo tanto fieri e ci sentiamo capi del mondo per via di quella cazzata del Cogito ergo sum cartesiano) si dispongono dove devono essere e muoiono a metà in modo da diventare trasparenti e permetterci di vedere, uno come fa a negare l'esistenza di dio, di Dio, di una coscienza, di un'entità, di un'intelligenza?
Io non ce la faccio. Mi sembra impossibile che lo stesso principio di base che vale per tutto il mondo fisico ovvero l'entropia non si sia applicato allo sviluppo delle cose che sono successe dopo il Big Bang. 
Le alternative sono: 
- c'è andata di culo ad essere vivi (se tutto sommato consideriamo piacevole questo giro di giostra sul pianeta Terra in forma umana): le possibilità che si originasse la vita, e dai primi batteri tutte le forme di vita che ci hanno consentito di essere come siamo sono veramente pochissime, anche se spalmate su tempi molto molto lunghi come quelli cosmici. 
- ci ha detto molto male nell'essere vivi (se consideriamo indesiderabile, insensato, insopportabile questo viaggetto): tra tutte le cazzo di combinazioni che le molecole potevano prendere sono diventate proprio DNA che poi ha cercato corpi sempre più evoluti per colonizzare il mondo, facendomi passare circa 75 anni di inferno
- deve esserci una qualche forma di energia che è stata immessa nel sistema Universo in modo tale da determinare la nostra esistenza in questa forma (esattamente come io determino con la mia energia cinetica che i vestiti vadano nell'armadio e non restino sparsi nella stanza). 
Io propendo per l'ultima ipotesi. Noi non vediamo e non immaginiamo quale sia questa energia, perché nemmeno il mio vestito se si svegliasse con coscienza ma con sensi che non gli permettono di vedermi si chiederebbe perché a volte è in camera, a volte si muove e a volte è nella cabina armadio.
La figata però è che noi abbiamo dei sensi (e tra i sensi includo anche la mente, come i buddisti, perché in questo caso mi sembra opportuno) che, se ben indirizzati, ci permettono di intuire questa energia. Magari non la capiremo subito, visto che probabilmente ci accecherebbe. Però con il retto sforzo possiamo vederla. 
Almeno, io inizio a intuirla, e a spaventarmi sempre meno di questa intuizione che all'inizio mi turbava molto. Ero diventata fieramente materialista, non c'era spazio per cazzate energetiche, teologiche, teleologiche. In effetti non ce n'è bisogno, perché sono tante parole che coprono la realtà. La realtà è semplice. Esiste qualcosa che non vediamo normalmente, ma che possiamo vedere. E questo qualcosa è amore che ci ha chiesto di esistere come molti perché potessimo vederlo e potessimo tornare uno. 
Come ho imparato, spero, è sempre troppo presto per cantare vittoria. Quindi dico semplicemente che mi impegno a provare a vedere questa cosa che esiste, perché esiste. 


mercoledì 30 marzo 2016

Felicitàààà...ti ho persa ieri, ma oggi ti ritrovo giààààà

Scommettere.
Sempre.
Tutto.
Sulla.
Felicità.

Mi sono svegliata una mattina ed ero, inaspettatamente e incontrovertibilmente, uscita dalla comfort zone in cui la felicità non era possibile.
Perché un posto in cui non potevo essere felice era diventato un posto confortevole? Oh, che domanda, ma perché era più facile.
Pensavo che la felicità risiedesse nell'ottenere quello che desideravo, quindi diventava più facile non desiderare niente oppure desiderare una qualsiasi cosa e fare i capricci e frignare perché non l'avevo ottenuta
.
Pensavo che la felicità fosse avere questo o quello, essere quello o questo, e provavo tante forme di questo e quello e poi mi arrendevo, e siccome felice non lo ero mai, una forma valeva l'altra. E forma non ne avevo più, e tutto intorno le cose e le persone si distorcevano, collassavano, liquefacevano.
Pensavo che la felicità fosse essere libera dalle imposizione esterne, e non mi accorgevo che ciò che dovevo liberare (ciò di cui mi dovevo liberare?) ero io stessa, quindi mi dibattevo per un po' ululando contro qualcosa, e poi o mi schiantavo di fatica, o atterravo per disperazione nel mondo.
Credevo che essere felici fosse essere scemi. Come essere felici in un mondo tanto imperfetto e ingiusto e criticabile e duro? Meglio essere infelice, almeno mi intonavo al mood generale.
Ero certa che essere felice si facesse da soli, o in due come gli innamorati di Peynet. False entrambi, la felicità si fa in molti.
Non sapevo che l'infelicità è contagiosa e me ne riempivo. Non sapevo che l'infelicità creasse divisioni, e mi trinceravo dietro i miei nastri elettrificati.
Ero convinta di non meritarmela, la felicità. Si può essere felici solo se perfetti credevo.
Ma ora so che sono perfetta, anche se sono una minchiona piena di difetti. Siamo tutti così perfetti che vi vorrei baciare tutti in mezzo alla fronte, anche se poi urlo che siete stronzi e non capite un cazzo.
Scommettere sulla felicità non è essere ingenuamente ottimisti, non significa non vedere le ingiustizie e stare a braccia incrociate mentre penso agli angeli custodi. Non significa nemmeno non vedere i problemi e sperare che l'Universo paghi il bollo auto per me o monti un lavoro o vinca il concorso al posto mio. Queste aspettative sono da idioti (giusto per dirlo agli idioti che pensano che io sia diventata idiota).
Essere felice significa vivere con il cuore aperto. E a volte fa male, ma non so come sono felice lo stesso. Essere felice significa non nascondermi. Essere felice significa accettare e lasciar andare. Essere felice significa non incazzarmi perché le cose non sono come dico io. Essere felice è vedere le persone nella loro inutilità invece che come funzioni di un mio scopo.
Essere felice significa vedere che ogni cosa che accade è una possibilità per andare oltre un mio limite. Essere felice significa sperare che gli altri vivano le cose allo stesso modo, ed essere certa che prima o poi lo faranno. Essere felice significa smetterla di pensare ossessivamente alle alternative, all'altrove, a ciò che non c'è e vivere il più possibile ciò che c'è.
Essere felice significa non considerare nulla come non suscettibile di una risata di pancia, eppure prendere tutto molto seriamente.
Essere felice significa non aver bisogno di niente e di nessuno, eppure accogliere tutto e tutti e goderne quando ci sono e lasciarli andare quando vanno via.
Essere felice significa credere in quello studio scientifico secondo cui fingere un sorriso rende davvero più felici. Essere felici è adorare le persone cupe e che si infastidiscono all'idea della felicità, e prenderle in giro. Essere felice significa smettere di chiedermi se sono felice., significa smetterla di tracciare la sorgente del benessere con marcatori radioattivi solo per scoprire da dove arriva e dove va.
Essere felice è accorgermi che respiro. Essere felice sono le coincidenze che non sono mai per caso.
Essere felice è sentire l'energia della meditazione e ringraziare di averla incontrata.
Essere felice è far felici gli altri. Soprattutto questo. Far felici gli altri. Riemergere dalla lanetta che si annida nel nostro ombelico con qualcosa in mano da regalare. Prendersi dei rischi, non chiedersi sempre perché, fare e basta.
Essere felice è fottermene se mi considerano ingenua, semplice, poco adatta alla vita contemporanea, non abbastanza cinica, quando affermo queste cose.
Essere felice significa vivere. E io voglio intensamente, profondamente, vivere. E io sto vivendo, spesso intensamente e profondamente. Che fatto curioso.







giovedì 24 marzo 2016

Smettere di fumare

Sto smettendo di fumare o perlomeno riducendo moltissimo, scelta a cui sono arrivata solo per motivi di salute: mi si frantuma la testa per la sinusite, mi si infiammano tutte le vie aeree superiori, mi viene la febbre ed è evidente che il fumo non possa che peggiorare tutto ciò.
Ma a me fumare piace. Posso dire questa cosa? In Italia è un'affermazione forse ancora permessa ma in Inghilterra, per esempio, sarebbe davvero sconveniente dirlo. Che palle, a me fumare piace.
Mi rendo conto che spesso non ho il controllo su quanto fumo e questo mi fa innervosire. L'essere dipendente da qualcosa è sempre una mezza merda, ma ci sono tanti plus nel fumare e poi siamo dipendenti da un sacco di cose, il tabacco è solo la punta dell'iceberg...potrebbe essermi capitato nella vita di diventare dipendente dall'eroina e sarebbe stato molto peggio...
Mi rendo conto che le sigarette puzzano e non mi piace, ma già fumando i drum (le sigarette rollate da me, malissimo tra l'altro) il problema della puzza è meno forte. E poi basta aprire le finestre di casa e passa tutto, no? E poi lavandosi capelli e denti regolarmente e mangiando delle mentine noi fumatori non diventiamo automaticamente mostri della puzza come ci dipingono i non fumatori...
Ma mi rendo conto sopratutto che fumare sigarette ha cementato amicizie, da sempre. Dalle gite scolastiche alle superiori, alle vacanze o nelle serate quando vuoi conoscere qualcuno, alle notti in cui accompagnavo a casa un'amica e stavamo in macchina a raccontarci un sacco di fatti e sensazioni privatissimi scandendo il tempo con 10 "ultime sigarette", alle cene in cui stai a tavola per ore condendo sigarette, minchiate, cose serie e un po' di amari. E poi fumare è esteticamente bello, anche sexy direi, non sempre, ma sei sei un po' fig@ aggiunge del fascino.
Mi rendo conto anche che insegnando dovrei lanciare forte e chiaro il messaggio che il fumo fa male. Ma spesso sono accaduti momenti educativi più intensi durante una sigaretta fumata insieme ad uno studente/essa in crisi che durante le ore di lezione in classe.
Mi rendo anche conto che fumare è un comodo passatempo: sto aspettando un autobus, l'inizio di uno spettacolo, un amico che non arriva. Posso guardare il telefono (loser), posso guardare le scarpe dei passanti, posso meditare un poco sui rumori intorno a me oppure...posso fumare una sigaretta!
Quindi ora si pongono delle questioni chiave:
Che cosa faccio ora nel tempo lasciato libero dal fumo?
Come riempio quei minuti? Lavoro di più? Mangio di più (ho il terrore molto preciso di prendere 10 chili per il cambio del metabolismo...)? Tamburello di più con le dita? Mi incazzo di più con il resto del mondo? Medito di più?
Come sostituisco la pausa sigaretta con qualcosa che mi dia la stessa sensazione di spazio vuoto in cui la mente può distaccarsi del tutto dal lavoro che sto facendo o al bisogno mi consenta di focalizzarmi meglio?
Che scuse uso per chiedere o dare un momento di attenzione esclusiva a qualcuno o per ritagliare degli spazi dentro i momenti di gruppo?
Rileggendo tutto questo pippotto che ho scritto con gli occhi di chi sa, perché lo so, quanto forti siano i condizionamenti che governano le nostri vite, e sa che siamo fatti di abitudini, e sa che la paura del cambiamento è solo paura dell'ignoto, e sa che ci rassicuriamo con le cose come i bambini con i peluches mi viene da ridere.
Però cazzo, fumo da 20 anni. L'attaccamento più lungo della mia vita, direi. Mi manda in sbattimenti, quasi come quando finisce una storia. Un altro ex da archiviare. Quindi fase di down, poi assestamento, poi odio, poi nostalgia, poi la normalità diventerà essere separati e magari di tanto in tanto potremo vederci e risentirci. Ma sarà sempre qualcosa con cui devo andare cauta per non ricaderci, anche perché ci sarà solo la mia volontà coinvolta, il fumo non mi dirà "No, Misa, ti voglio bene ma non possiamo tornare insieme". E io non potrò nemmeno odiarlo perché è stronzo. A parte il mal di testa e i soldi spesi il fumo è stato un piacevole compagno di vita.
E poi ogni cambiamento è un'implicita accettazione del tempo che passa. E io odio il tempo che passa. Mica posso far finta di essere zen se non lo sono. Porco cazzo.
Uff.