Prefazione: tout se tient. Non sono
capace di parlare d'altro se non di me e dei miei percorsi. Perché io
sono il mondo, e il mondo sono io. Scusatemi, se potete.
Ultima ora del primo venerdì di
primavera. Lo sciopero dei mezzi pubblici ha decimato la mia classe,
una terza. La terza C. Nemmeno lo sanno, ma per me sono “I ragazzi
della Terza C”. Ogni volta che ci penso muoio dal ridere
ricordandomi del rosso ciccione, della figona bionda e del
commendator Zampetti in onda sulle reti Fininvest nei tardi anni '80.
Sono meno di una decina, quelli bravi e
diligenti (dovrei dire quelle) e quelli che non possono più fare
assenze nemmeno se gli viene l'appendicite, perché hanno esagerato
nel “balzare” e ora stanno cercando di non farsi bocciare.
Dopo aver messo una nota e fatto una
lavata di capo ad una delle mie seconde (perché ho messo una nota ve
lo racconterò un'altra volta) li cerco nei corridoi e come da
accordi presi nell'intervallo ci avviamo all'anfiteatro che sta
davanti alla scuola, una di quelle cose brutte che negli anni 70
sembravano geniali, tutte gradoni in cemento armato e muschio
verdognolo.
Stiamo lì un attimo a goderci il sole,
e poiché lezione non la posso fare, ma nemmeno mi va di farmi i
fatti miei, chiedo loro cosa pensano del progetto che stiamo portando
avanti insieme, ovvero la realizzazione di un corto per partecipare
ad un concorso.
La risposta è unanime: “figata”.
Perché? Perché ci sentiamo coinvolti. Perché è un progetto, ha
uno scopo.
D'istinto, colpita dalla precisione di
queste risposte chiedo: “Ragazzi, voi lo sapete vero che io sto
seguendo un corso abilitante all'insegnamento?” Sì, dicono. E
allora mi aiutereste a capire come deve essere un buon insegnante?
La prima risposta: giovane, come lei.
Al che dico che sono meno giovane di quanto appaio (al massimo sembro
giovane perché sono cazzona, ma questo non glielo dico) e che
comunque prima o poi invecchierò anche io.
Sì, ma un bravo prof deve essere
amichevole. Ma non per finta. Per mezz'ora, tra cioè e capito ed esempi, mi elencano una serie di attributi che il bravo docente
dovrebbe avere. Senza mai contraddirsi. Mai.
- dovrebbe guidarci passo passo, darci consegne precise, così può anche sgridarci se non le seguiamo
- dovrebbe sapere dove vuole portarci
- dovrebbe ascoltare gli alunni
- dovrebbe ammettere i propri errori
- dovrebbe relazionarsi al di fuori della propria materia
- dovrebbe relazionarsi con ognuno di noi
- dovrebbe permettermi di fumare, come adesso (e capisco cosa vuol dirmi M., vuol dirmi, dovrebbe essere flessibile)
- dovrebbe essere chiaro
- dovrebbe avere passione (e questo lo dicono tutti)
- dovrebbe saper gestire la classe, non farsene gestire
- dovrebbe fare altro, se non gli piacciono i ragazzi
- dovrebbe incoraggiarmi ad andare bene
- dovrebbe spiegare perché noi capiamo, perché io capisca, e non per finire il programma
- dovrebbe portarci lo stesso rispetto che chiede a noi
- dovrebbe stare attento a quello che pensa di noi, perché se pensa che siamo scemi, noi gli mostriamo che ha ragione. Se invece pensa che siamo bravi, noi, magari con calma, glielo dimostriamo.
- dovrebbe essere severo, chiedere molto. Ma non severo perché urla, perché quello è essere stronzo
- dovrebbe stare attento al primo incontro con la classe, perché da lì nasce tutto
- dovrebbe capire che la sua comunicazione non verbale ci dice tutto
- dovrebbe sforzarsi di portare la sua materia nella vita di tutti i giorni
- dovrebbe provare a capire quello che ci piace (e su questo mi rincuoro, perché scopro che alla sera vorremmo andare allo stesso concerto)
E io, strabiliata e commossa e quindi
ironica per nascondere le mia commozione, prendo appunti come una
matta. Seduta per terra. E dentro di me le domande, e l'immagine di
me come insegnante.
Ed è incredibile, perché io questo
lavoro lo sto facendo per caso. Mi sono rifiutata per anni di farlo,
ho pure mollato il mio primo amore che si era immaginato per noi, ma
per conto suo, il mondo di Barbie professoressa&mamma e Ken
manager di successo.
E poi mi ricordo la domanda di uno di
loro, un po' più grande, che mi chiede a bruciapelo mentre fumiamo
una sigaretta: “Prof, ma quando mi dicono che devo maturare, cosa
intendono? Perché io li guardo gli adulti, e non capisco”. A me lo
chiedi, tesoro della zia? Che cosa vuoi che ne sappia, visto che per
me “adulto” e “morto” coincidono (entrambi participi passati
sono, e senza presente, senza divenire, non c'è vita).
Magari insegnerò quest'anno e poi mai
più, o magari lo farò tutta la vita. So per certo che mai più sarò
la stessa. Perché me li ricorderò uno per uno, questi giovani
esseri umani che mi dicono che sono tenera, e insieme vogliono che io
li guidi. Io. Che li guidi. Io, che non so nemmeno mettere un passo
dopo l'altro senza inciampare. Io. E allora mi ricordo di me alla
loro età, e di come disperatamente cercavo un senso, e come ancora
lo cerchi e come questo senso, un pezzo perlomeno, fiorisca dentro un
fatto inaspettato della mia vita: insegnare. E mentre insegno cinema,
insegno a me stessa come essere una persona migliore, imparo di nuovo
a farmi domande, divento egoista perché mi piace e mi fa stare bene
e insieme, quando riesco, mi rende totalmente altruista, perché voglio il
loro bene. Dando così un senso concreto alle elucubrazioni
mistiche etiche degli ultimi anni. E vedo la possibilità di un posto in cui se
qualcuno diventa più bravo di me sono felice. E vedo che insegnare è
potenzialmente l'attività più rivoluzionaria che si può fare.
Potrei smetterla finalmente di sognare di mettere bombe contro una
società senza senso, e sognare di educare alla libertà. Esiste una
rivoluzione più grande?
E al di là delle contingenze della mia
vita e della loro, sento che questa richiesta di senso va accolta,
che la scuola deve avere un senso, molti sensi, affinché i ragazzi
li mastichino, li digeriscano e li assimilino.
E allora accade che di fronte
all'apertura dei TFA Speciali (corsi abilitanti per insegnanti già
in servizio, a cui si accederà senza test d'ingresso) ammorbi per un
pomeriggio e una sera i miei amici, spiegando che è ingiusto. Perché
se anche insegni da 10 anni ma a luglio 2012 non hai passato il test,
per quanto mi riguarda devi rifarlo finché non riesci a passarlo. E
i miei amici, che un po' mi invidiano e un po' mi prendono in giro
perché insegno, finalmente mi vogliono ministro dell'istruzione
subito (del resto mi hanno già acclamata sindaco di Corvetto).
Insomma, la scuola non può essere
un'accolita di laureati falliti che vogliono un posto fisso, un
obbligo poco simpatico per lo Stato che non può lasciare i ragazzi a
casa davanti alla tv, una baby sitter 14enne cannaiola ma necessaria
perché mamma e papà devono lavorare, un luogo di trasmissione di
saperi vecchi ammuffiti e inutili, una cattedra su cui erigere
monumenti all'ego e nemmeno un centro di formazione di futuri
lavoratori. No. Deve essere un laboratorio di senso. E mi costa
dirlo, ma se è evidente che al ministero e al governo importi poco, è pur vero che anche i sindacati si allontanano molto da questa visione.
Io, ai diritti dei lavoratori precari antepongo il diritto degli
studenti ad avere insegnanti bravi, preparati, appassionati, che
abbiano voglia di formarsi, che si mettano in gioco come esseri umani
di fronte ad altri esseri umani di uguale valore, anzi maggiore
valore.
Se mai insegnerò ancora (e tra
parentesi dico che di tutti i lavori che ho fatto questo è il più
faticoso, perché richiede una presenza mentale costante e altissima)
vorrei essere valutata nel mio insegnamento. Vorrei essere valutata
perché vorrei che qualcuno mi invogliasse a fare sempre meglio e
perché vorrei sperimentare. Vorrei più soldi, e vorrei che se non
fossi più capace di insegnare mi dicessero “vai a fare altro”.
Non vorrei diritti che permettano a qualche collega di non fare
niente. Vorrei un sistema che mi dica: brava, continua così. O un
preside che mi dica, sei stanca, prenditi delle ferie.
Vorrei il diritto all'anno sabbatico. Vorrei che non si spiegasse solo da dietro una cattedra in scuole che sembrano caserme. Vorrei che si chiarisse all'opinione pubblica che l'insegnante non può vivere a scuola 11
mesi all'anno per 40 ore alla settimana, come molti vorrebbero,
perché altrimenti finirebbe per insegnare solo le cose che già sa,
esaurendo la sua curiosità nel breve giro di pochi anni.
Vorrei che qualcuno anche in Italia
facesse come Mr.Obama, che ha investito 4 miliardi di $ per scoprire
quali sono i segreti di un bravo insegnante.
Vorrei che i miei figli o i miei nipoti
o i figli di un migrante sconosciuto possano diventare persone. Né servi
asserviti del sistema, né lavoratori lavorati e spesso pure ignorati
dal mercato del lavoro.
Vorrei che questo lavoro mi facesse
cambiare, in meglio, ogni giorno. Perché senza rivoluzione
interiore, non esistono rivoluzioni. E io la rivoluzione la voglio ancora, ma con altri mezzi e altri scopi.
Moebius, Autoritratto
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