Corvetto. Milano. Lombardia.
Entro in casa, prima suono però, che quasi mi sento un'estranea. Nessuna risposta. Alberto e Fabiola non ci sono.
Ho scaricato le mie cose (un trolley grande, uno medio, un borsone, il beauty, la borsa del computer, la mia borsa, due sacchetti, una stampante, un morbido maialino rosa che nessuno ha voluto). Stanno accatastate nell'androne. Quando parto o torno mi piace incontrare i vicini, loro stanno sempre qui. Io no. Stavolta non incontro nessuno. Peccato, non ho modo di suscitare invidia.
Porto dentro un bagaglio alla volta, il passaggio è troppo stretto, chiuso com'è dagli stendini. Dovrò svuotarli prima di poterli usare. L'idea mi infastidisce.
Dalla porta della mia stanza filtra un odore di chiuso. E' fresca, inspiegabilmente. Il piumone a righe rosa (regalo di poco gusto di Ivonne) mi accoglie. Penso che stanotte lo toglierò, per portarlo a lavare a RdL. Tolgo le scarpe, infilo le infradito, quelle bianche che avevo lasciato in mezzo alla stanza, quasi ad aspettarmi.
Appoggio il borsone nero, dedicato a scarpe e miscellanea. Lo svuoto. Sistemerò un pezzo per volta. Una valigia via l'altra, per non andare in apnea da ordine. Alzo la tapparella, poi combatto come sempre con la grata. Vince lei, resta chiusa, salda nella sua funzione antirapina.
Il calendario della Città del Sole è fermo su maggio. Giro le pagine, punto la graffetta verde. A luglio una bambina dalle trecce rosse fa merenda a testa in giù in una veranda, davanti al mare.
Il quadro giallo è storto. Alcune foto di Berlino si sono staccate. Penso che in Calabria non ho scattato nemmeno mezzo rullino. Peccato.
Prima di partire dalla Romagna, tappa felliniana per intensità della mia attività onirica e per coefficiente spensieratezza/malinconia/sesso, ho compilato una lista delle cose da fare. E' il mio modo per riprendere possesso di Milano. O forse è il modo di Milano per possedermi.
Poco importa, in amore le lotte di potere sono sterili. Ciò che conta è che c'è una sola cosa da fare: fare.
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