giovedì 12 febbraio 2015

Mondo gatto. Anche oggi cercheremo una breccia.

In giorni come questi, spesso
la tetraggine m’assale
e il vivere d’ora in ora
mi tortura. Ma arrivi tu
che sconfiggi la noia
coi tuoi discorsi variopinti.
Anche oggi cercheremo una breccia.
Una parola che ci possa salvare
e che ci tenga in bilico
sul confine ideale tra realtà
e fantasia potrà, anche

se per poco, cangiare l’esistenza

Eugenio Montale, da Diario Postumo

Ho un gatto. E' bianco e nero, si chiama Apache. E' arrivato da me poco più di un mese fa. Me l'ha portato Danilo, che mi vuole bene e anche se non lo dice mai poi regala tutto quello che ha.
Il Biondo non lo voleva. Io sì. Sapendo che le mie altre storie con i gatti erano state strane e si erano interrotte bruscamente. 
E, per lo sbalordimento di alcuni, la mia comprensione di me e del mondo da poco più di un mese passa attraverso di lui. Passa attraverso Zampa Lumière detto Apache.
Questa cosa bianco e nera che gira per casa ha subito rischiato di morire per aver mangiato un pezzo di elastico. Incredibilmente non avevo senso di colpa. Eppure io ho sentito, nello sforzo di sopravvivere di un gatto malandato, ho sentito rinnovato, e infine esorcizzato, come bruciato e dissolto in catarsi, il mio dolore per un bambino inaspettato che qualche mese fa ha attraversato la mia pancia, giusto per il tempo di accorgermene e di farmi prendere due chili. Ho risentito il sonno, la fame, l'incapacità di vedere il mondo chiaramente di quel mese di inconsapevole ma chiarissima maternità. Ho visto l'ospedale, gli amici che mi hanno sorriso e consolato, la rabbia crudele che ho provato, lo scherno, il sollievo, Sì, anche il sollievo. Perché stare negli schemi è più facile che starne fuori, più facile che aprire i cancelli, la pancia, l'utero e la vagina. 
Apache poi è stato bene, e io credo di essere pure allergica al suo pelo. Ma è bello dormire con lui, che mi mette le zampe in faccia e fa le fusa come se niente di più importante al mondo esistesse. Insieme a lui ho imparato a muovermi piano, a fare una cosa per volta, a non scattare sull'attenti per ogni minchiata mi passi per la testa. Respiro, e lo lascio respirare. Mi faccio morbida. Ho studiato come rapportarmi con lui, che l'amore è studio e impegno. Ho visto il Biondo guardarlo, e giocare con lui come solo i maschi sanno giocare, precisi, concentrati, divertiti. 
Apache poi è sparito. E io non lo so come fosse possibile, ma io sapevo che cosa gli fosse successo: qualcuno aveva deciso di tenerlo. Per un poco ho ceduto al vuoto della certa incertezza della possibilità. Poi ho capito. Prima di arrendermi, dovevo provarci, trovarlo. Sono uscita, fottendomene del ridicolo interiore, a cercarlo casa per casa e l'ho trovato. E ho scoperto cercandolo che cercavo qualcosa di resistente, vero e puro in me. E ho scoperto che stavo scoprendo che le persone hanno bisogno di amore, e siccome non possono non vogliono non si fidano a consegnarlo agli umani, lo danno ai gatti, senza vergognarsene. E poi ho scoperto un atto d'amore: un'anziana vicina che ha visto Apache andare avanti e indietro sui tetti e un giorno l'ha preso in braccio e l'ha portato da suo marito immobilizzato a letto, e insieme gli hanno dato un nome: Sansone. Come hanno fatto per anni, ribattezzando tutti i gatti che hanno attraversato il loro terrazzo. E ho scoperto che si può volere così fortemente e superficialmente una cosa da prendersela anche quando non ci appartiene, anche se questa cosa non è una cosa ma un animale.
E ora Apache è tornato, e mi ritorna in mente quando leggevo libri di neuroscienze, in cui scoprii che l'ansia e lo stress sono solo la paura che ci resta attaccata addosso senza che riusciamo a scuoterla via. E crescendo la paura che ci cresce addosso ci modifica e deforma, come un glicine deforma il tubo su cui si arrampica.  Guardo Apache e gliela vedo addosso, la paura. E vorrei soffiargliela via. E la vedo addosso a me, per motivi che non so nemmeno più. E so che noi umani siamo solo degli animali capaci di vedere le proprie emozioni, ma spesso incapaci di gestirle tanto quanto un gatto bianco e nero di sei mesi. 
E ho visto che per tranquillizzarlo, devo solo essere lì. Che è quello che tutti gli esseri umani si aspettano dagli altri. Ma essere lì è difficile. E allora stiamo nelle nostre teste, a tendere inutili agguati ai nostri pensieri. Invece di mangiare, bere, fare l'amore, compiere mirabolanti avventure sui tetti e fare le fusa. 


Nella foto: Marina Abramovich, foto della performance The Artist is Present, Moma, NYC, 2010

domenica 8 febbraio 2015

Inner conversation

"Nessuno è perfetto.
Però tu Marilisa sei davvero banale, nell'essere come tutti gli altri. A me di quegli sfigati non importa, ma voglio che tu, tu che vai in giro spacciandoti per me infangando il mio nome e la mia immagine, voglio che tu sia perfetta, e non ti darò tregua."
Firmato:
l'ego.