venerdì 25 ottobre 2013

Al cor gentile rempaira sempre amore ovvero che titolo della madonna

Tutti voi che abitate il mio cuore
chi siete
dove siete.
Siete me travestiti da voi.
Siete voi travestiti da me.
Volteggiate e giocate a nascondino
e.
Vi fate solidi e inamovibili.
E.
Ma sono io, che gioco ad essere voi.
Siete voi, che vi giocate di me.

Morbida e tiepida
come un rifugio antiaereo,
la caverna del mio cuore.
Rustica e solida
come una malga d'alpeggio.
Vi nutro, inondo e tengo il ritmo dei (per i) vostri abbracci.
Non c'è scelta nello scegliere,
non c'è essere nell'essere scelta.

Soffro il solletico.
Gradisco le grattate.
Fermo le ferite.
Sorrido i sospiri.

Ombre nell'Ade.
Se mi volto a cercarvi ve ne andate.
Se ve ne andate, mi volto a cercarvi.
Se mi cercate, mi volto a guardarvi.
Confondo i nomi, le storie, le date. Intreccio
amori e disfo legami. Mi confondete.
Mi rendete confusa.
Ma è chiaro infine. E il sangue si fa trasparente
e potente.
La perfetta somma della parti. La parte perfetta della somma.
La perfezione della somma della parti.
Tutto traspare. Tutto risuona.
Tutto tace.
Tutto, non vinto, soggiace.
Tutto rinasce.







martedì 22 ottobre 2013

La lingua madre (e matrigna)

Do you think I know what I'm doing?
That for one breath or half-breath I belong to myself?
As much as a pen knows what it's writing,
or the ball can guess where it's going next.

Jelaluddin Rumi

Mi accorgo che il mio inglese è migliorato, perché da quando sono sola e penso in italiano a quando riesco a far fluire una conversazione in inglese, il tempo si sta notevolmente riducendo.
Lo switch è più veloce e meno traumatico, e la conversazione sempre più spedita.
Riflettere sulla padronanza di una seconda lingua mi ha fatto accorgere di una cosa, che ho sempre sospettato.
Il linguaggio, di qualsiasi tipo, è il nostro unico strumento per comunicare il nostro mondo, la nostra esperienza interiore. Non ne possiamo fare a meno perché abbiamo bisogno di avvicinare gli altri alla nostra realtà (nonché di provare a intuire quello che gli altri sentono), ma il linguaggio è sempre un tradimento della realtà.
Così come la traduzione da una lingua all'altra è un tradimento.
E mi accorgo che parlare una lingua che non è la mia, e mai lo sarà, (guardate questo splendido reading di una poesia di Sujata Batt) mi sta riportando ad una semplicità e ad una maggiore aderenza al reale.
Non posso nascondermi dietro complicate evoluzione verbali, sintattiche o retoriche in inglese. I can but keep it simple. And real.
Il godimento di avvicinare una qualsiasi questione e analizzarla da molti punti di vista grazie al linguaggio è innegabile, ed anche un processo certamente utile. Ma  spesso scambiamo la decorazione, l'analisi, la sofisticatezza per la realtà. Che stupido errore, la realtà è semplice. Davvero semplice.
Come il mio inglese, come il linguaggio dei bambini.
Come qualcosa a cui abbandonarsi. Come una tigre nella foresta, agile e scattante e totalmente presente in ciò che fa. E una tigre, in punta di penna e in punta di lingua non la potremo mai addomesticare. E se anche riuscissimo, in punta di frustino, ad addomesticarla, l'avremmo solo privata della sua grandiosa bellezza e ridotta ad uno spettacolo da circo.
E' questo che vuoi, dalla realtà?



domenica 20 ottobre 2013

Che a volte mi devo dire che sono bravona!

Per la prima volta dopo molto, troppo tempo, so precisamente chi sono, a che punto sono, che cosa sto facendo e perché, e apprezzo anche il come.
È magnifico. È magnifico che sia ancora possibile.


martedì 15 ottobre 2013

Se il mondo non scompare in un buco nero


You must have chaos within you to give birth to a dancing star.
Friedrich Nietzsche, allegedly

Se il mondo non scompare in un buco nero è grazie ai bambini che sbagliano per imparare, agli adolescenti che vogliono solo crescere davanti ai tuoi occhi adoranti e vederti con un sorriso una volta ogni tanto, ai migranti che rimescolano lingue razze usanze che altrimenti andrebbero a male, a chi ci prova fortissimo, ai cercatori di pepite d'oro, agli incontentabili sempre soddisfatti delle loro ricerche e mai dei loro risultati, ai cacciatori di formiche, a chi non ammazza le api pigre intrappolate a ottobre in una stanza,  a chi trova forme nelle nuvole, a chi si da dello stupido e poi per consolarsi si mangia la nutella, a chi balla da solo in camera, a chi crea dal nulla, a chi annusa il fieno e lo smog, a chi coltiva gerani in città.
Se il mondo non scompare in un buco nero istantaneo è per lo spazio che creiamo in noi per accogliere follia, bellezza, insensatezza, gratuità, amore, capriole e stelle.


sabato 12 ottobre 2013

Faber est suae quisque fortunae

Come è possibile non credere al karma? O perlomeno non credere che le cose che dobbiamo affrontare ci si presentino sempre, e in forma sempre più difficile, se non le affrontiamo la prima volta?
No, perché per me è impossibile. Io non mi so spiegare altrimenti questo pezzo di vita in cui sono adesso.
Sono nella versione inglese di RdL, il mio bergamasco paese d'origine di cui molte volte parlai in questo blog. Pianura, freddo, campagna, vaga noia. Ciò che devo affrontare è chiaro: trovare un senso non nella frenesia della vita, ma nella vita.
Vivo con una coppia di signori che, cattivo gusto nell'arredamento a parte, mi ricordano molto i miei. Gran lavoratori, semplici, battuta pronta, nazionalismo di facciata, orto e poche pretese culturali. Ciò che devo affrontare: la mia spocchia para intellettuale e artistoide.
Non ho veri e propri amici finora, e cerco di evitare di vivere incollata alla tecnologia per parlare con gli amici italiani. Ciò che devo affrontare: la solitudine, l'aspettarmi sempre che qualcuno si occupi e preoccupi per me.
Ho la sensazione che questa non sarà la mia condizione di vita per sempre, ma che sia una specie di purgatorio in cui, mentre mi purifico da scorie passate, riesco a mettere a fuoco il mio futuro, e a gettare semi perché fiorisca.
Del resto occuparsi del proprio karma è proprio andare a ripescare le cause dell'attuale sofferenza, e con atti volontari benefici, far sì che smettano di proliferare, piantando invece semi di futura felicità.
Let's get the job done.


sabato 5 ottobre 2013

Lampedusa

Questo disastro di Lampedusa è, per me, una sorta di tragica epifania, così potente che vorrei fingere di non curarmene, perché mi devasta ogni volta che la incontro nei miei pensieri o nelle mie letture.
Mi sconvolge le priorità, gli interessi, le prospettive. Mi fa piangere tutte le lacrime che non ho versato nemmeno per amore o per rabbia o per dolore. Mi fa riconoscere, ricordare, realizzare ciò che è davvero importante e ciò che è vacuo. Che gli esseri umani siano trattati da esseri umani, che siano messi in condizione di poter essere umani e non solo di essere vivi, questo è l'importante. Tutto il resto conta poco. Conta come il due di coppe quando comanda bastoni, avrebbe detto la mia amata nonna Maria, che era saggia e adesso se fosse viva sgranerebbe rosari per quei poveri negretti sconosciuti.
E mi è ben chiaro ciò che dice Michele Serra. Ed è questo sentimento di superiorità di cui lui parla a farci tracciare la linea di demarcazione tra noi e gli stranieri. La linea che mi attraversa, e che mi vorrebbe dire che io ho più valore se faccio e vivo in un certo modo piuttosto che in un altro, invece di dirmi che ho valore in me. E come io, tu, e gli "altri". Quegli altri che ci infastidiscono, in Lombardia come nel Lincolnshire, dove  sono spaventati da polacchi, lituani e portoghesi che lavorano nella "loro" terra. Perché poi quando si aggirano per Boston, hanno pure l'ardire di parlare la "loro" lingua, invece della nostra.
Ma questa ricchezza che, frutto di lontane origini predatorie, ci intontisce perché così diffusa, data per scontata, rivendicata e sprecata non durerà per sempre, anzi, sta già mostrando la corda. Il capitalismo, come Marx aveva previsto, ce lo metterà in quel posto a tutti. Loro, coloro che sono già ricchi oltre l'immaginabile e che lo diventeranno via via sempre di più, fanno il loro gioco "divide et impera" e noi ci caschiamo come polli. Poveri noi. Poveri i nostri figli. E poveri anche loro, pieni di soldi e potere e civiltà e privi di umanità.
E allora mi viene in mente questo:
When they came for the Jews and the blacks, I turned away
When they came for the writers and the thinkers and the radicals and the protestors, I turned away
When they came for the gays, and the minorities, and the utopians, and the dancers, I turned away
And when they came for me, I turned around and around, and there was nobody left.

mercoledì 2 ottobre 2013

Don't carry the world upon your shoulders

Non sono io che devo cercare la verità (il senso, l'amore, Dio). Anche perché c'è il concreto rischio che strangoli la verità mentre cerco di fermarla, nel fugace momento in cui mi passa davanti.
Forse è la verità (il senso, l'amore, Dio) che mi deve cercare. E io? Io che cosa devo fare? 
Io posso semplicemente non nascondermi, lasciarmi trovare e arrendermi. 

martedì 1 ottobre 2013

Da grande

Sono qui in un posto sperduto, a fare una sorta di training come insegnante, e mi chiedo se nella mia vita voglio davvero fare la prof fino alla pensione (o alla morte, visto che la mia generazione la pensione probabilmente non l'avrà mai).
Insegnare mi piace, ma considero alternative. Vedo una parte di me che ha voglia di fare altro, di cimentarsi, che teme la frustrazione di ambizioni abbandonate, la noia di una vita sempre nello stesso posto, la fatica di uno stipendio non esattamente esaltante, la patina di naftalina e lo scarso appeal associato agli insegnanti.
Vedo e so che ho talenti in abbondanza, e che anche se non sono esattamente un genio a metterli a frutto, sono lì. E mi fa strano ammetterlo, ma ho finalmente smesso la falsa modestia che sempre si accompagna alla vanità, e so riconoscere sia le mie capacità sia i miei limiti.
Poi leggo di persone che come me (ma molto meglio di me come risultati)  hanno fatto lavori nell'ambito creativo. E che sono a spasso. Perché non c'è lavoro, e per quello che c'è le aziende preferiscono gli stagisti o le persone molto giovani, che si possono permettere di farsi pagare poco.
E vedo la fatica per mettere via due soldi per autofinanziarmi un progetto.
E vedo la fatica di chi ce la fa a lavorare nel settore, che non può fermarsi un momento altrimenti è fuori dal giro e devo fare pubbliche relazioni costantemente e diventare un paraculo e essere on 24/7. Per fare alcuni lavori bisogna diventare indispensabili, e diventare indispensabili è un lavoro duro e quasi totalizzante.
E vedo le statistiche sulla disoccupazione in Italia, nonché percepisco aria pesante anche qui in Inghilterra, e quindi dovrei considerarmi fortunata se troverò un lavoro come insegnante.
Quindi di nuovo mi chiedo: che cosa voglio? Ed è una domanda che mi spaventa, perché mette in gioco moltissimi parametri che vanno poi inseriti in una scala di priorità ben chiara: i soldi, la felicità, il tempo libero, l'idea di una famiglia, il senso di utilità, la volontà di ricevere complimenti o sentirmi speciale (chiamasi anche ambizione), la serenità, l'immagine di me, l'autorealizzazione vera o presunta e molti altri. Scegliere che cosa fare da grandi, pur nella consapevolezza che le cose possono sempre cambiare, è in qualche forma scegliere chi si vuole essere. E le scelte mi fanno paura, da sempre. Sono la potatura di una parte, potenziale o reale, di me.
Però non riesco a non pensare che è indispensabile fare come nella frase cantata dal buon vecchio Guccini in Eskimo (Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà), e mi considererò brava solo riuscirò a scegliere invece che a farmi trascinare lenta in una vita arrivata per caso o per ripiego.
Che la vera povertà alla fine è una cosa sola: non avere la possibilità di scegliere (o, anche, non riuscire a scegliere quello che c'è)
Il problema è, per me e per i miei limiti caratteriali, la consapevolezza che a volte, pur scegliendo qualcosa, non lo si ottiene. And it sucks.
PS: Stavo per pubblicare questo post, ma ero insoddisfatta. Perché non mi piace granché ed è pure realmente pesante e depresso, sarà perché oggi è il primo fottuto ottobre. Mentre ci riflettevo lasciandolo riposare come la pasta per la pizza, ho trovato pubblicata su FB questa frase di Mordecai Richler: "Un ragazzo può essere due, tre, quattro persone potenziali, ma un un uomo una sola: quella che ha ucciso le altre".
Ed è vera, perfettamente scritta e poco consolatoria. Ma ciò che mi consola è il fatto che ancora una volta mi guardo intorno e ciò che trovo è esattamente quello che mi serve.
Quindi, mi sembra più facile scegliere, ora che ho di nuovo fiducia nell'universo.

Ricordarsi le domande per coltivare le risposte

Non c'entra niente con le cose che ho vissuto e fatto oggi.
Eppure, o proprio per questo, so che questo video è l'unica cosa sensata della giornata.
Sensata perché insensata, rivoluzionaria, folle e facilmente travisabile. Delicata, anche se sembra solo una boutade.
Chi sono io? Che cosa me ne faccio del mio io? Chi è l'altro? Che cosa me ne faccio dell'altro? Che cosa gli faccio? Come sto dentro l'inevitabile insensatezza di essere viva? Che cosa desidero? Come ottenerlo? Come trovare i modi giusti per arrivarci, che ormai so che contano più quelli dell'obiettivo? Come si fa a costruire un aquilone e a farlo volare?