lunedì 30 dicembre 2013

David Forster Wallace, il duemilacredici, l'ironia, le relazioni

Nonostante abbia tutt'altro da fare, mi sono messa a leggere cose on line su e di David Forster Wallace, lo scrittore per il cui suicidio piansi come per la perdita di un amico vero.
Ho messo insieme una serie di citazioni.

“If you can think of times in your life that you’ve treated people with extraordinary decency and love, and pure uninterested concern, just because they were valuable as human beings. The ability to do that with ourselves. To treat ourselves the way we would treat a really good, precious friend. Or a tiny child of ours that we absolutely loved more than life itself. And I think it’s probably possible to achieve that. I think part of the job we’re here for is to learn how to do it”

“Everybody is identical in their secret unspoken belief that way deep down they are different from everyone else.”

“The truth will set you free. But not until it is finished with you.”

“What passes for hip cynical transcendence of sentiment is really some kind of fear of being really human, since to be really human [...] is probably to be unavoidably sentimental and naïve and goo-prone and generally pathetic.”

“The parts of me that used to think I was different or smarter or whatever, almost made me die.”


And make no mistake: irony tyrannizes us. The reason why our pervasive cultural irony is at once so powerful and so unsatisfying is that an ironist is impossible to pin down. All U.S. irony is based on an implicit "I don’t really mean what I’m saying." So what does irony as a cultural norm mean to say? That it’s impossible to mean what you say? That maybe it’s too bad it’s impossible, but wake up and smell the coffee already? Most likely, I think, today’s irony ends up saying: "How totally banal of you to ask what I really mean."

Di queste citazioni, inizialmente non ne vedevo il senso generale, non sapevo che cosa andavo cercando.
Ma ora lo vedo, ed è perfetto per la fine di questo duemilacredici. Il duemilaecredici mi ha portato un senso. Dopo un lungo periodo di assenza da me, dopo un periodo di ribaltamento generale di me, il duemilacredici mi ha portato a crederci. A crederci perché so. Perché ho usato l'ironia per distruggere ciò a cui credevo per comodità o sentito dire, e ora posso rilassarmi nelle cose e smetterla di smontarle, anche quelle che mi fanno bene, e smetterla di prendere tutto come se fosse un gioco. Perché è un gioco, tutto, ma un gioco molto serio. Ci sono di mezzo altre persone, ci sono di mezzo io. C'è di mezzo l'umanità mia, vostra e di tutti da conservare. C'è di mezzo anche il mondo. Se si gioca nelle relazioni inconsapevolmente o disperatamente come ho fatto per molto tempo, ci si fa male, e si fa del male. Se si gioca politicamente ed economicamente come giocano i neoliberisti, distruggiamo il mondo. E non possiamo farlo. A meno che davvero siamo così disperati da non credere che i nostri figli e nipoti (reali o semplicemente fratelli in umanità) meritino un passaggio che sia pienamente umano su questa Terra. Ma se siamo così disperati, potremmo pure toglierci di mezzo, invece di riempire la nostra miserevole vita con l'orrore. 
Amo ridere, ancora. Amo distruggere e provocare. Mi piace prendere in giro le cose che più amo, ma appunto, provo a farlo con amore. Provo ad essere presente in questa fatica che il voler essere umani, totalmente umani, comporta. Provo a usare l'ironia per distruggere ciò che va distrutto, e l'amore per conservare ciò che va conservato. Non applico più l'ironia totale.
L'ironia totale è il marchio del postmoderno. Significa affermare che non c'è niente per cui vale la pena credere e per cui comportarsi rettamente e sforzarsi di essere migliori. L'ironia totale è Bret Easton Ellis, che ho letto, ma che non mi dice niente di nuovo. Mi racconta la disperazione per il gusto di raccontarmela, ma non si sforza di trovare alternative. E lo trovo disgustoso, perché nella sua vita sono certa abbia trovato alternative alla sua mancanza di senso, e creare un'opera d'arte che semplicemente appaghi l'ego ma non porta il letture in nessun posto più bello, non mi aiuta a ricostruire un senso del mondo, ma solo a godere dell'orrore (a tratti indubitabile) della vita come un entomologo, è per me orribile e unfair. 
L'ironia totale è vedere solo me. La mancanza di ironia è evitare di vedere me, perché non posso permettermi di ridere di me. Ecco, io ora sto da qualche parte lì in mezzo. 
L'altro giorno una mia amica mi diceva che la vita di coppia è innaturale, troppo faticosa. E' vero, è mostruosamente faticoso amare, non solo nella coppia. Ma anche meditare, ed essere coscienti di che cosa si fa, di quello che sento, di quello che posso provocare nell'altro e nel mondo è difficilissimo.
E allora che alternative abbiamo? Che alternative ho? Vivere ad cazzum? Io non ne ho voglia. Io, nel duemilaecredici, ho capito che non riesco a vivere ad cazzum, e che non voglio. 
E che la disperazione dell'ironia, se a volte serve per vedere chiare le cose, e per ridere delle nostre miserie, non esaurisce il senso del mondo. 
E di fronte all'ammissione di DFW che il suo sentirsi diverso (strano?) e più intelligente quasi l'ha fatto morire, lui che già a 17 anni tentò il suicidio, mi sono venuti i brividi. Perché alla fine DFW si è comunque suicidato. E il suo amico scrittore Jonathan Franzen, che se ne è andato su un'isola con le ceneri di DFW per capire perché si è suicidato, chiude il pezzo sulla sua ricerca di senso si un gesto senza senso così. 
E io lo condivido in pieno. 

Exactly halfway through “Robinson Crusoe,” when Robinson has been alone for fifteen years, he discovers a single human footprint on the beach and is literally made crazy by “the fear of man.” After concluding that the footprint is neither his own nor the Devil’s but, rather, some cannibal intruder’s, he remakes his garden island into a fortress, and for several years he can think of little but concealing himself and repelling imagined invaders. He marvels at the irony that:

"I whose only affliction was, that I seem’d banish’d from human society, that I was alone, circumscrib’d by the boundless ocean, cut off from mankind, and condemn’d to what I call’d silent life . . . that I should now tremble at the very apprehensions of seeing a man, and was ready to sink into the ground at but the shadow, or silent appearance of a man’s having set his foot in the island."

Nowhere was Defoe’s psychology more acute than in his imagination of Robinson’s response to the rupture of his solitude. He gave us the first realistic portrait of the radically isolated individual, and then, as if impelled by novelistic truth, he showed us how sick and crazy radical individualism really is. No matter how carefully we defend our selves, all it takes is one footprint of another real person to recall us to the endlessly interesting hazards of living relationships. Even Facebook, whose users collectively spend billions of hours renovating their self-regarding projections, contains an ontological exit door, the Relationship Status menu, among whose options is the phrase “It’s complicated.” This may be a euphemism for “on my way out,” but it’s also a description of all the other options. As long as we have such complications, how dare we be bored? 


venerdì 27 dicembre 2013

Duemilacredici -5

Ancora qualche giorno di duemilacredici.
Metto in fila delle parole, che ho incrociato e a cui ho provato a dare un senso.
Resilienza
Smoothness
Perdere
Vincere
Provare
Cambiare
Osare
Sorridere
Accettare
Confini
Apertura
Essenza
Obiettivi.

E ricordo un momento, che nonostante l'insignificanza nell'economia della mia vita, mi porto in tasca come memento della vita come dovrebbe e potrebbe essere.
Ero a Milano in bicicletta in un giorno di sole. I pantaloncini di jeans appena tagliati da me, per risparmiare. Una collana colorata. Le cuffie appena ricomprate, rosa. Stevie Wonder che canta Higher ground. Mi fermo ad uno stop in circonvallazione. Non me ne accorgo, ma sto ballando. Un ciclista, maschio, quarantenne, rossiccio mi pare, mi si avvicina. Sorride. E mi dice: "Wow, dev'essere figo quello che ascolti". Gli passo un auricolare e mi dice: "Eh sì, hai ragione" e balla per due secondi anche lui. Rido.
Ripartiamo entrambi, nel sole di Milano, nell'appiccicume di Milano d'estate, nel traffico di Milano che era pronto a esplodere dietro di noi.
Ci sorridiamo, e niente, parrebbe la fine della storia.
Ma non lo è. Perché io mi ricordo di lui, di un gesto disinteressato, pieno di curiosità e bellezza, pieno di una voglia di vita che c'è dovunque. E da nessuna parte, se non te la porti dentro.
E che non esiste, se te la porti dentro ma non la condividi.
E quindi liste, decaloghi, abitudini, esperimenti, lamentele, scopi, obiettivi e tutte le cose con cui puntello la mia vita, non valete un cazzo. Se non lascio spazio alla gioia di vivere per il puro gusto di vivere.

Ecco, il duemilacredici mi ha insegnato questo. Ma le liste, ecco le liste continuano a piacermi. Eccone una.





mercoledì 25 dicembre 2013

Il Natale, nonostante il Natale

Natale. Guardo il presepe scolpito, dove sono i pastori appena giunti alla povera stalla di Betlemme. Anche i Re Magi nelle lunghe vesti salutano il potente Re del mondo. Pace nella finzione e nel silenzio delle figure di legno: ecco i vecchi del villaggio e la stella che risplende, e l'asinello di colore azzurro. Pace nel cuore di Cristo in eterno; ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. Anche con Cristo e sono venti secoli il fratello si scaglia sul fratello. Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri? 
Salvatore Quasimodo


Mio nipote Lorenzo ha declamato questa poesia poche ore fa. 
E mi ha commosso. 
Perché Natale è un momento nell'anno in cui crediamo. Crediamo nella possibilità di qualcosa di diverso da ciò che siamo e da ciò in cui crediamo. Natale è un momento in cui siamo vulnerabili, e quando siamo vulnerabili siamo più belli, più forti, più umani. 
Tutti gli orribili film USA sul Natale parlano di questo, la capacità di credere ancora, di stupirsi, di essere gentili, generosi ecc ecc. Ma perché sono tremendi? 
Ci ho pensato a lungo nei giorni scorsi, dopo averne visti un paio in tv. Stavo per girare canale, ma poi ho deciso di andare fino in fondo. E ho capito che sono tremendi perché ci dicono quanto è bello e facile credere, quando scende la neve e le case sono decorate, ma tacciono sul resto. Tacciono sugli altri giorni dell'anno e sugli altri posti del mondo. Guardi quei film e sembra che credere si possa fare solo a Natale, in Nordamerica. E il resto del tempo e dello spazio siano destinati all'assenza di speranza. E i film di Natale mi fanno venire voglia di non credere più a niente. Cazzo, io non voglio i vostri sogni. 
Ma ho deciso di fermarmi un attimo prima di questo rifiuto, e di analizzare a che cosa credo, quando a Natale credo. 
Credo, nel senso della fede, nella nascita di un bambino speciale. Non ci credo molto, cioè, la storia è bellissima e piena di significati allegorici e a me piace credere nelle storie, ma proprio credere nel senso della fede per cui quella è LA verità, no. Ma posso comunque crederci. 
Credo nello spendere i miei soldi e la mia attenzione per qualcuno che non sia io.
Credo che l'amore esista e che passi anche nella mia famiglia, che mi ama a sua volta. Ma lo credo con questa intensità solo a Natale. A Natale li amo nonostante i loro difetti. 
Credo che esista dio, anche se non so che nome dargli. Perlomeno credo che esita una possibilità di essere più umani. 
Credo che possiamo essere bambini per sempre, anche se ci fa male sapere che non lo saremo mai più. 
Credo che il mondo abbia un senso, che è piccolo e non ha niente a che vedere con i soldi e il successo. E credo che questo senso potrebbe essere condiviso. Credo che l'egoismo non sia l'unica via. 
Credo che ognuno abbia il diritto alla pienezza di vita, e che tutti i nostri talenti possano essere spesi, e che non farlo sia orribile, non solo per noi, ma per tutti gli altri.
Credo che chi è venuto prima di me ha agito in buona fede per darmi questo mondo, anche se a tratti è davvero impossibile crederlo. 
Credo che sorridere a chi mendica fuori dal supermercato alla vigilia di Natale sia altrettanto importante che dargli il mio resto. 
Credo che tutti siamo umani, anche se molti se ne vergognano. 
Credo che anche se siamo tutti uguali, siamo tutti diversi. E non c'è bisogno di fare classifiche di perfezione. Credo che basti accettare.
Credo nelle tradizioni, e amo che siano diverse. 
Credo che posso smettere di lottare, e semplicemente godere di quello che accade. E godere nel vedere che anche gli altri godono della resa, a Natale.

Ma forse tutte queste cose in cui credo non bastano, e questa insufficienza mi fa odiare i film natalizi. 
E non è che ho bisogno di credere in altro. Ho bisogno di sapere. 
Sapere che quello che abbiamo e condividiamo lo potremmo perdere, inclusa la nostra umanità. Devo sapere che ogni giorno devo lottare per conservare lo stupore e la vulnerabilità del Natale, per evitare di smettere di credere a ciò quello in cui credo a Natale. 
Credere non è un dono. Credere è una scelta. Credere è scegliere di stare vicini alla propria vulnerabilità, che ci rende fortissimi. 
Quindi, scelgo di credere al Natale, nonostante il Natale. E nonostante i film di Natale. 


venerdì 20 dicembre 2013

Ho idee che non condivido/3

Negli ultimi anni mi sono avvicinata al buddismo.
E' un modo di vedere il mondo che mi piace, perché dice che sebbene tutto quello che vediamo e facciamo è in ultima analisi destinato a finire, foriero di dolore e inconsistente (impermanenza, sofferenza e non sè sono i tre segni dell'esistenza) dice anche che non sei buddista se non pratichi la meditazione, ovvero una via pratica e sperimentale per liberarsi da questi tre marchi atavici che ci portiamo addosso, che il mondo si porta addosso, per il semplice fatto di esistere.
Questo significa prendersi la responsabilità delle mie azioni. Se medito, o se agisco in maniera meditativa (che non significa pensando, ma consapevolmente, in piena presenza) getto semi positivi per il mio karma. Se non lo faccio, negativi.
Perfetto. Fin qui tutto bene.
Ma.
Ma questa visione del mondo impiantata sulla mia radice cattolica piena di sensi di colpa, e fomentata da un atavico senso di essere sbagliata e pure da cattivi maestri, ha fatto in modo che mi convincessi che "fosse sempre colpa mia".
Ecco, no.
Non è vero. Non è sempre colpa mia. Posso fare meglio, ma non posso fare meglio anche al posto degli altri. Non posso farmi massacrare perché io devo imparare a ricevere i colpi. Non posso davvero credere che gli altri non abbiano responsabilità. Si finisce al manicomio così. O si diventa delle prede facili, e delle persone sconfitte. E si resta per sempre bambini (nel senso negativo di questa fantastica condizione)
Perché solo un bambino può credere che sia sempre colpa (o merito) suo, come se l'universo girasse attorno a sé.
Se gli altri sono stronzi, da praticante buddhista posso provare compassione per i loro atti, ma sicuramente non è colpa mia. Non è vero che me lo merito. E se sono felici, non è merito mio. Non è solo merito mio.Non restare attaccati a nulla, questo mi dice il buddismo. Godere finché c'è, ed essere pronta a lasciare andare. Soffrire il necessario, osservare il dolore, ma astenersi dal riaprire le ferite e lasciarsele riparire. Provarci, sedersi in meditazione e accettare ciò che c'è, ma non sforzarsi. Praticare la gentilezza amorevole e l'equanimità, non la stolta presunzione di essere ovunque, di comandare il mondo, nel bene e nel male.
E io lo sapevo, una parte sana di me l'ha sempre saputo.
NON E' SEMPRE COLPA MIA.


giovedì 19 dicembre 2013

Ho idee che non condivido /2

L'altro giorno un mio amico mi ha mandato questo video.
La prima reazione è stata commuovermi. Poi ho iniziato a dirmi che il video faceva schifo. Che era una cazzata, troppo romantico e sdolcinato e che quei due erano due sfigati illusi.
Ora: ho passato almeno almeno l'ultimo anno e mezzo a riflettere sull'amore, e a leggere sull'amore.
Ho imparato molte cose, ma ad un certo punto mi sono fatta prendere la mano, ed ho iniziato ad affermare che l'amore romantico non esiste. L'amore tra due persone, che si dimostrano amore, passione, tenerezza, e che vogliono stare insieme, avete presente? Ecco, niente, per me era diventato una cazzata, una sovrastruttura imposta dall'ordine borghese per evitare che ci si diverta troppo facendo orge, o una subdula costruzione mentale ordita dai Sette Savi di Sion per non renderci conto di quanto siamo schiavi e costringerci in una vita a due.
Quindi ho agito di conseguenza, anche all'interno di relazioni. Fredda, cinica, ironica, autocensoria. Per poi struggermi quando le cose finivano.
Ora: questa idea non la condivido. Non l'ho mai condivisa, è ancora peggio.
Sono consapevole che abbia basi fondate: non puoi amare qualcuno e dire: fanculo a tutto il resto, siamo solo io e il mio amore; è vero che l'amore nasce da basi biologiche e ormonali; si può vivere anche se un amore finisce; ci piace crogiolarci nel dolore d'amor perduto; le principesse delle favole hanno ci hanno mangiato il cervello da ragazzine e ora cerchiamo un inesistente principe azzurro; l'amore finto, che diventa zuccheroso è orribile a vedersi quanto a viversi. Ma se ami qualcuno, lo sai, e basta viverlo.
Ed invece: una parte di me andava verso l'istinto di tenerezza, passione, conforto, scambio, aiuto, comprensione, celebrazione, gioia, vita, progetti, sfanculate, paci, biscotti a letto, che è l'amore, e io la sopprimevo, perché l'amore non è un'idea figa e intellettualmente lineare.
Ma pensa te. Ci vuol del genio (mal indirizzato) per essere così stupidi.


martedì 17 dicembre 2013

Ho idee che non condivido/1

Don't believe everything you think
Una persona mi ha recentemente detto "Se dovessi parlare a qualcuno di te gli direi di non credere a tutto quello che dici". Non ho mica capito subito che cosa volesse dire. Perché non sono una bugiarda patentata, anche se qualche bugia l'ho detta e la dico.
Ma ora credo di aver capito: credo intendesse dire che mi convinco da sola di alcune cose, mi persuado che debbano essere come le penso, e anche se sono in disaccordo, mi ci attacco e mi comporto come se davvero ci credessi. Sarà che ho bisogno di qualcosa in cui credere, e allora mi costruisco da sola quello che mi sembra giusto, o forse figo, intellettualmente figo e lineare e in linea con un certo personaggio che voglio creare.
Ecco: questa nuova rubrica vuole smantellare e rendere pubbliche le cose in cui mi sono convinta di credere, ma solo per posa. Perché life is always bigger, e questo lo credo davvero, ma faccio fatica a vivere di conseguenza.

Prima decostruzione.
Ogni volta che c'è il sole e non sono di cattivo umore mi ricordo di questa frase di una canzone di Morgan ai tempi dei Bluvertigo:
Oltre al patimento di ascoltare parlare la gente che si dice 
contenta, persuasa, convinta che sia bella la vita 

col sole nel cielo d'estate 
E mi convinco che è intellettualmente disonesto essere felici in una giornata di sole, come oggi a Boston, UK, dove ovviamente non è estate ma c'era un bellissimo e tiepido solo.
Il sole mi rende più felice di una giornata di pioggia? Sì. Il sole d'estate al mare mi rende felicissima? Sì. Quindi posso mollare la posa di voler essere infelice nonostante il sole perché il mondo fa schifo e la vita non ha senso e rallegrarsi solo perché sorge il sole è troppo borghese? Sì, posso. E la mollo, orasubbito!



lunedì 16 dicembre 2013

Dell'inutilità delle maiuscole o del (non) dirmi cristiana

Sono andata a due Christmas services nell'ultima settimana.
Uno nella locale chiesa metodista, tenuto da Salvation Army, l'altro in una chiesa anglicana.
A parte la felicità dei pastori nel vedere le chiese piene, il freddo e Come all ye faithfull cantata da me in latino (con rischio di essere bruciata in quanto bloody Catholic, che è uno dei miei mille soprannomi according to my landlord), e a parte l'interesse antropo-sociologico, non ho potuto che riflettere, ulteriormente, sulla mia appartenenza religiosa.
Non posso non dirmi cristiana. Ma detesto non potermi dire totalmente non cristiana.
Le canzoni di Natale mi commuovono. Forse andrò persino alla messa di mezzanotte, se il vin brulé non avrà la meglio. Capisco il senso e l'esigenza di riti comunitari. Se avessi o avrò figli probabilmente li farei battezzare, anche se poi gli confonderei tremendamente le idee. Le parole dei Vangeli, ma anche qualcosa della Bibbia, mi risuonano dentro. Ecco, scrivo pure vangeli e bibbia con la maiuscola, automaticamente. E non solo per una questione grammaticale. Non riesco a considerarli libri come tutti gli altri.
Gesù Cristo era un grande uomo. E mica serve che lo dica io. Magari era solo un simbolo di un grande uomo, magari era la rappresentazione mediorientale dell'ancora più orientale Siddhartha Shakyamuni, aka Buddha, che comparando le due storie è palese che siano molto molto simili.
Ma non riesco a credere che Gesù sia stato mandato da Dio/dio che sta nell'alto dei Cieli/cieli perché si incarnasse sulla Terra/terra e ci redimesse dai peccati.
Posso tranquillamente credere che Gesù fosse un essere umano talmente grande, talmente sovra-umano, da diventare dio. O meglio, credo, e spero, che Gesù abbia allargato la sua anima tanto da lasciarsi invadere da dio.
E nemmeno posso credere nella transustatazione, ovvero che l'ostia e il vino, consacrati, divengano realmente, e intendo REALMENTE, il corpo e il sangue di Cristo. Posso accettarli come simbolo di comunione, appunto. Con le persone, con il famoso prossimo, ovvero anche con il vicino di casa con cui non parlo da anni ma con cui condivido lo stesso pane ovvero la stessa umanità e al contempo divinità. E quella comunione dovrebbe portarmi a non odiarlo più. Ma non mi pare che le cose vadano così.
E certamente non posso credere che Gesù, per conservarsi santo e puro, sia nato da una vergine. E' una concezione maschilista e sessuofoba. Tutto è santo, the world is holy.
Non riesco ad accettare di credere che il cristianesimo sia LA religione, dando per scontato che le altre religioni siano una fandonia. Lo sono tutte, e non lo è nessuna. Rispondono tutte a bisogni profondissimi di ogni uomo, ma credo diano risposte immature e semplicistiche. E credo che l'applicazione di queste risposte immature e semplicistiche sia in fondo alla base della nostra personalità/civiltà spesso immatura e semplicistica. Soprattutto le cosiddette "religioni del libro", non mi sembrano per nulla efficaci nel creare una società migliore, pacifica e giusta. Erano meglio gli antichi Romani con il loro accogliente politeismo, o Ashoka, imperatore buddhista da noi davvero troppo poco conosciuto.
Le religioni organizzate dovrebbero, a mio parere, limitarsi a mostrare un esempio di vita spirituale e di amore, e insegnarci a porci le giuste domande e coltivare le giuste pratiche per indagare noi stessi, il mondo e Dio, anzi, dio. E per giuste non intendo Giuste, intendo efficaci, utili, sensate ovvero piene di senso e umanità. Invece noi cerchiamo risposte, non capendo che dio si trova maggiormente a proprio agio nelle domande.
Del resto le ultime parole di Gesù in croce sono state "Dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato?". Mica un'enciclica...



martedì 10 dicembre 2013

Ma non per te solo

A te che mi chiedi la mia attenzione.
Sappi che non l'avrai.
Ho imparato a dare gratis. A non aspettarmi niente. Ed è liberante. Ho imparato ad amare senza volere niente in cambio. Ed è liberante.
Ma ho anche imparato ad amare me stessa (che poi era parte integrante del pacchetto Love for dummies).
Ho imparato a non aspettarmi di essere amata perché ti lascio fare ciò vuoi, come un cucciolo di cane non educato, e nemmeno perché io faccio quello che vuoi tu, come un cucciolo di cane educato.
Ho imparato, anche, a non essere più un campo di battaglia, dove vieni a sconfiggere te stesso. Dove vieni a darti battaglia, per sentirti forte lasciandomi piena dei tuoi cadaveri. Che l'unica perdente ero io, come nelle guerre medioevali, dove chi perdeva erano solo gli abitanti dei villaggi nei cui dintorni si combatteva. Mutilati, rapiti, stuprati e defraudati. Cambiava padrone, ma sempre schiavi rimanevano.
Ecco, io ho imparato. Non sono più schiava.
Ho imparato dove sta il confine tra tenerezza e pietà. Affetto e amore. E sta esattamente nel punto in cui io sto bene da sola, in cui tu stai bene da solo. In cui io sono perfetta come sono, e tu sei perfetto come sei. Altrimenti è sindrome del buon samaritano, autolesionismo, narcisismo della bontà. Schiavitù, di nuovo.
Ho imparato che gli sciacalli affamati di vittoria sulle prede moribonde vanno evitati. E se insistono a cacciarmi, ho imparato pure a sparargli. Ho imparato a non prendermi le rivincite. Che l'unica rivincita è amare di più. E' dire la verità più forte. E' essere più onesta.
Ho imparato che a fare male posso fare del bene. A me. E magari pure a te. Che mica ti odio, ma nemmeno fingo più di credere che mi ami. Ti auguro del bene, me ne auguri. Ma non sarò io la tua felicità. Non sei tu la mia.
Quando avrai mangiato fino all'ultimo boccone del tuo ego, e l'avrai digerito, allora finalmente potrò  parlare con te, e non con le tue mille facciate costruite ad arte. Non accadrà prima, non un secondo prima.
Non ti sarò concesso entrare nella mia camera segreta, nemmeno per un secondo. Fino ad allora puoi sbirciare se vuoi, non mi interessa. Non mi nascondo, è abbastanza evidente. Scrivo qui. Come potrei nascondermi. Ho scelto di non nascondermi. r
Ma non entrerai.
Che io il viaggio fin qui l'ho fatto da sola. E che fatica. E che soddisfazione. Tu non c'eri. Perché io non ero abbastanza. E avevi ragione. Non lo ero.
Ora però fatti un viaggio da solo. Ti auguro di trovarti al di là. Così forse potrò ritrovarti. Che in fondo per un bel po' il mio cuore ha riposato nel tuo, e il tuo nel mio. Ed è stato bellissimo. E la connessione è per sempre. Irrevocabile, come le decisioni papali (prima di Papa Francesco).
Ma se anche non ti ritroverò mai, un grazie te lo riconosco.
Mi hai messo qui. In questa vita. E questa vita ora è mia. Nessun obbligo, nessun dovere.
Solo il piacere di amare, solo il piacere di scoprire, solo il piacere di fare fatica. Ma per me. Mica per te. Per chi amo. Mica per te. Per chi mi ama. Mica per te. Per tutto l'universo. Ma non per te. Non per te solo.
Ce ne sarà un altro, o forse no, ma credo di sì, per cui dirò: solo per te. Ma saprò che non è vero. Perché se ami, ami tutti. Solo in forme diverse. Ma farò finta che sia vero. E sarà vero.


PS: a chiunque si riconosca in questo scritto: non sono fatti che mi riguardano. "Medico, cura te stesso".

lunedì 9 dicembre 2013

I pretend to be happy cause I pretend to be happy. Per favore non prendetemi sul serio.

Forse l'unico modo per essere felici è far finta di esserlo. Nel senso: se guardi la realtà ultima delle cose, la totale mancanza di senso della vita, non c'è un cazzo per cui essere felice.
Ma questa tabula rasa di senso diventa piena di possibilità nel momento in cui il vuoto è percepito come potenzialità di costruire e non come assenza di qualcosa.
Allora fai finta che ci sia un senso, e che si possa essere felice. E forse in un universo parallelo, più alto, la felicità esiste davvero.
E se fai finta davvero, come nel recitare per davvero (come imparai nelle lezioni di recitazione che in questo momento mi sembrano migliaia di migliaia di anni luce lontane nel tempo e nello spazio) tocchi la verità delle cose.
Fingi di essere felice e finisci per esserlo, perché indaghi, esplori e tocchi la felicità. Non ti fa più paura e te ne lasci invadere (attenzione, fare questo con altre emozioni può essere pericoloso, vedi quello che raccontano su  Heath Ledger e Joker)
Ma per "fare finta che" (del resto il gioco preferito dei bambini, e di quanto ami i giochi e i bambini ho scritto e detto molto) o recitare per bene servono energie. Altrimenti mi sgamano da lontano un miglio che sto solo facendo finta. E mi intristisco da sola a fingermi felice. 
Allora ho deciso che per un weekend non avrei fatto finta di essere felice. E mi sarei ricaricata, riempita (che mi sentivo asciutta come il Serio ad agosto) e avrei pianto se avrei voluto piangere e non avrei rotto i coglioni a nessuno con la mia misery, che potrebbe trasformarmi anche nella protagonista di Misery non deve morire, ovvero tenere qualcuno ad ascoltarmi sotto minaccia di morte. 
E come ne sono uscita?
Così. Ho una lista di cose a cui pensare e per cui stressarmi che levati. 
Ma: c'è speranza. C'è speranza che possa essere ancora felice, che possa avere le energie to pretend to be happy (in entrambi i sensi).
Perché ho l'ironia. So perfettamente che sono una noia mortale e mi prendo per il culo, e amo quando mi prendono per il culo per essere una noia mortale. E provo a giocare, di nuovo. Con le parole, con le cose, con le emozioni, con il passato e con il futuro. A giocare con il massimo rispetto possibile. Sapendo che non c'è senso, ma creandolo ex nihilo. 






domenica 8 dicembre 2013

Dammi tre parole.

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Grazie. Detto gratis e di default.
Uffa. Solo quando serve. E allora serve proprio dirlo, anche meno gentilmente. 
Lovoglio. Quando non ne posso proprio fare a meno. E tutto attaccato per darmi la spinta. E arrivarci preparata.



venerdì 6 dicembre 2013

Se niente importa

C’è una sola cosa che si scrive solo per se stessi, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno. Umberto Eco

Come funziona la mia anima?
E' l'unica cosa che mi importa sapere nella mia vita. Come funziona la mia anima.
Così scoprirò un po' di più anche come funziona la tua, la vostra.
Non mi interessa altro.
E scoprendolo, man mano la riparo, la faccio tornare integra. E facendola tornare integra provo a rimettere insieme l'universo intero. Perché io e lui, l'universo, quindi io e te, siamo la stessa cosa.
La stessa cosa.
Se io non mi importo, niente importa. Se niente importa, l'universo scompare.



mercoledì 4 dicembre 2013

Le conseguenze di una pasta al ragù (ovvero dell'amore)

Le conseguenze dell'amore sono imprevedibili.
Nessuno giocherebbe con passione una partita a calcio se sapesse nei dettagli che cosa succederà (per questo il calcioscommesse sta uccidendo uno sport di cui non mi frega niente ma che trovo molto bello, soprattutto se visto allo stadio).
Oggi parlavo in chat con P., il mio ex fidanzato/fidanzatino/best friend with benefit (non so come definirlo perché non ci siamo mai detti che cosa eravamo). Quello venuto dopo il grande amore di cui ho parlato molte molte volte qui.
E gli ho detto "Per favore, se hai letto o leggerai il mio blog non rimanerci male. Perché a te ho voluto bene, ti voglio bene, posso persino dire senza mentire che ti amo, ma a mollare la presa e ad invitarti a mollarla, proprio non ce l'ho fatta. E l'altra sera piangevo anche per quello, perché non ce la faccio".
E lui mi ha detto che non mi legge più, perché non vuole essere coinvolto in questa condivisione di sentimenti da web 2.0.
E prima di aver scritto il post di ieri, dissi al mio perduto amor, che mi cercò in skype e vorrei coccolarlo e menarlo fortissimo allo stesso tempo, che avrei scritto qualcosa su La vie d'Adèle che tanto mi aveva fatto piangere, mentre avevo in testa la faccia e le mani sue.
E capisco la reazione di P., e mi chiedo perché scrivo questo blog. E per chi.
E credo di scriverlo perché ho scelto un commitment di onestà, scavo, rielaborazione, che devo a Nietzsche, e scrivere che lo devo a un pazzo genio filosofo fa ridere fortissimo. Scrivo questo blog perché sto meglio se scrivo. Perché voglio condividere qualcosa, che mi sembra che sia il senso della vita, condividere. Però poi mi chiedo se posso condividere anche la vita degli altri, se posso fare del male (è successo) tramite questo strumento. Se è vero che mi schermo, che lo uso come uno scudo e a volte come un'arma. Mi chiedo se scrivo questo blog perché sono totalmente egoriferita e perché l'analisi mi ha abituato a spezzettare tutto, e penso che queste due risposte siano molto molto plausibili.
E penso che non dovrei scriverlo più questo blog, ma dovrei imbottigliare ciò che sento e sottoporlo a una più intensa trasformazione al fine da rendere meno immediata la mia vita, e provare a fare qualcosa di più lungo, meditato, rielaborato di quattro parole a volte messe decisamente a caso.
E alla fine mi ricordo che le conseguenze dell'amore sono imprevedibili.
La vita vera è cucinare e poi mangiare la pasta al ragù al sesto piano di un appartamento di Manchester. La vita mediata è scrivere di questo. La vita ancor più mediata è leggere gente che mi dice "grazie, mi hai emozionato". Ma è vita vera anche questa, quella mediata. Anche Adèle non è vera, ma mi ha emozionato davvero. La vita vera è avere un virus intestinale dopo aver mangiato la pasta al ragù al sesto piano di un appartamento di Manchester.
La vita vera è quando smetti di chiederti quali sono le conseguenze dell'amore. E capisci che le conseguenze dell'amore sono tutto ciò che ti circonda, tutto ciò che sei.
La conseguenza dell'amore è l'universo intero.

martedì 3 dicembre 2013

Una pasta al ragù al sesto piano di un palazzo di Manchester.


Mourning, as we know, however painful it may be comes to a spontaneous end.When it has renounced everything that has been lost, then it has consumed itself, and our libido is once more free (in so far as we are still young and active) to replace the lost objects by fresh ones equally or still more precious. Sigmund Freud, On Transience 

Sono andata a Manchester nel fine settimana. Alla fine di una settimana in cui sono stata mangiata viva dalla nostalgia di casa, e dalla stanchezza, e da un certo senso di inutilità.
Inizio ad entrare nella fase centrale del mio assistentato in UK. La fase iniziale di totale novità è passata, il mio inglese non ha più un progresso così veloce, molte delle cose che volevo fare qui non si stanno concretizzando.
Mi mancano gli amici. Mi manca l'amore.
A Manchester mi ospita un amico francese, che sta al sesto piano di un palazzo che affaccia su dei palazzi come quelli brutti che a me piacciono tanto della periferia di Milano. E a me un po' piace lui, e anche io a lui. E c'è anche un altro amico, dal Belgio. E anche noi ci piacciamo, ma in un altro modo. E sono felice di essere lì. In una città. Bella, decadente, forte. Una città. Con loro che mi prendono in giro perché mi dicono che mi portano nel quartiere hipster così mi sento a casa. E io che chiedo al belga se il Belgio esiste davvero, e al francese dico che ha un accento un po' scemo e un po' sexy.
E a Manchester vado a vedere Blue is the warmest colour, ovvero La vie d'Adèle, ovvero La vita d'Adele. Perché il francese ama Adèle, e io sono persino un po' invidiosa. E prima di entrare ci facciamo le foto che sembriamo Jules e Jim, io che guardo uno, e poi guardo l'altro. E c'era una luce rossa e i riflessi delle coppie che parlavano piano nella caffetteria del cinema. E la vita fuori. E io che respiro e sospiro la città.
E sulla poltroncina del cinema piango per un'ora e mezza, e un'altra mezz'ora dopo. E piango perché rivedo me stessa dentro lo schermo, e pazienza se il mio era l'amore per un uomo e non per una donna. Era l'amore.
E piango, perché dopo quello sguardo ad una festa di Carnevale, io non mi sono più sentita predestinata per nessuno. Non l'ho più concesso a nessuno.
Piango per riempire il vuoto che ho dentro. Immenso, divorante,  una dannazione.
Piango perché Adèle ha perso l'innocenza, come me.
Piango perché il mio amore, come il suo, mi diceva che non ero abbastanza.
Piango perché lei, come me, ha tradito il suo amore.
Piango perché mi vedo agire nel mondo e mi vedo lavorare con la tabella del dare e dell'avere in mano, e mi faccio vomitare.
Piango perché vorrei abbandono. E produco solo sforzo.
Piango per la miseria di chi non ha amato mai. E per la fatica di chi vuole amare sempre.
E amo ogni immagine di Adèle, sporca, sudata, spettinata, vorace (pronunciato in francese però, è più bello). La vedo mangiare ed è meraviglioso. Mangia Adèle, ed è felice. Piange, e quando piange le se inonda la faccia, come a me. Ha il moccolo al naso e singhiozza. Come me.
Elle est perdue. She's lost. È perduta Adèle. Ma è forte. Ed ama la vita. Si impegna, cammina decisa, si mette il vestito blu, si guarda allo specchio con paura, ma va dove deve andare. E quando arriva saluta tutti, e beve il vino e io che la guardo mi chiedo: ma come fanno a non vedere che è rotta? Sta sanguinando, povera Adèle.
Io anche sto sanguinando. E mentre sanguino e divento debole, prima sulla poltroncina del cinema e poi nell'aria fredda di Manchester, mi sembra che tutto prenda un senso, una posizione in un puzzle che al momento non riesco a completare, ma vedo il disegno generale.
E allora andiamo, io e i miei due amici, a fare la spesa. Ero già la cuoca designata, in quanto femmina ed italiana. E allora anche se sono vegetariana decido di cucinare la pasta al ragù, la stessa che Adèle mangia con i suoi genitori, e che cucina per gli amici di Emma, ma per Emma, mica per loro. E per se stessa, per il suo amore cucina. Perché le fa bene al cuore cucinare per il suo amore.
E la pasta al ragù mi piace un sacco, e quando mia mamma cucinava il ragù ero felice. Ed ho imparato a farlo bene, e anche se sono vegetariana voglio mangiare la pasta al ragù come Adèle. Voglio mangiare la pasta al ragù al sesto piano di un palazzo di Manchester con il mio amico belga e il mio amico francese, che si chiama Max ed è triste pure lui. Il belga no, è felice, lui ha la sua birra. Sembra sempre così sereno lui.
E allora ecco, cucino la pasta al ragù, con calma. In un appartamento al sesto piano di un palazzo di Manchester.
Bevo il vino rosso intanto. E ascolto la musica che i miei amici scelgono. Musica africana, e I follow river, che balliamo un po'. Ma Adèle la ballava meglio nel film.
E penso ai miei amici che stanno altrove, non lì nell'appartamento al sesto piano di un palazzo di Manchester, e decido che proverò a raccontare a loro questo momento. Che lo so che sto semplicemente cucinando una pasta al ragù al sesto piano di un palazzo di Manchester, ma c'è una vita che sta andando apposto lì dentro. E li vorrei lì, e cucinerei una pasta al ragù gigante, anche se ho solo delle pentole piccolissime, nell'appartamento al sesto piano di un palazzo di Manchester.
E poi ogni tanto sento le lacrime in fondo alla gola, allora mi rollo una sigaretta. E leggo On Transience di Freud, che Thomas ha con sé, chissà poi perché. Ma anche Freud è un altro pezzo di qualcosa che si sistema, facendosi spazio, facendomi male. E poi parliamo del fatto che tutto passi e mi chiedono di farli meditare e io dico, ok.
E poi metto in tavola la pasta. Metto la pasta in tavola in una casa da studenti al sesto piano di un palazzo di Manchester. Per me, e un amico belga e un amico francese.
E allora mi accorgo che stiamo facendo una cosa. L'unica cosa sensata da fare. We are sharing love.
E benedico tutte le mie lacrime, e quelle di Adèle, e quelle di Max che non vedo, e quelle del mio amore, e quelle di chi avrei voluto amare ma non ce l'ho fatta, e quelle di chi mi avrebbe voluto amare ma non ce l'ha fatta. E le mie.
E mangiamo la pasta al ragù. Fine della storia.




giovedì 28 novembre 2013

Prima persona singolare, sebbene scritto in seconda persona.

A scuola studi le lingue staniere. E se studi abbastanza riesci a leggere articoli, libri, anche seguire film. Ma parlare, parlare una lingua straniera è tutta un'altra cosa. Devi essere pronta, presente, attenta ascoltatrice di te stessa e degli altri. Veloce nel cogliere le sfumature di contesto e di significato, fare attenzione ai dettagli, non puoi permetterti di fare altro contemporaneamente. Devi metterti nella condizione di sbagliare per poter imparare, non puoi stare sempre zitta e sorridere. Devi buttarti.
Per la vita funziona nello stesso modo. Puoi studiarla, analizzarla, filtrarla e rielaborarla e tutta la conoscenza che accumuli in questo modo ti sarà utile. Ma vivere, vivere è tutta un'altra cosa. Per vivere devi buttarti.

mercoledì 20 novembre 2013

Conferme scientifiche

La mia depressione, mai diagnosticata dal prode Rolando il terapeuta più bravo del mondo, (ma invece considerata un dato di fatto da quel mostro della mia migliore amica, e devo dire che probabilmente aveva ragione lei) è definitivamente over.
Perché quando c'è la luna alta in cielo come stasera, la prima cosa a cui penso non è quel pesantone di Leopardi, ma questa canzone.


E per non farmi mancare niente, poi mi canticchio da sola questa:


Quindi magari ora non sono più depressa, ma scommetto che la scientifica definizione che la solita malefica amica dott.ssa Silvia darebbe di me è che sono sono "tutta andata". Ma tutta allegramente andata.

lunedì 18 novembre 2013

Mise en abyme

Ho il desiderio di qualcosa.
Ho il desiderio di qualcosa che sveli a me stessa di che cosa ho desiderio.
Perché ho desiderio del desiderio, amore per l'amore, nostalgia per la nostalgia, mancanza della mancanza.
E non ho desiderio, ho bisogno, di qualcosa di vero, attuale, concreto. Che mi sporchi mani e faccia e mi punga e mi faccia il solletico. Senza parole, senza silenzi. Puro e fuori fuoco, diretto, scomposto, crudele come solo la dolcezza sa essere.


mercoledì 13 novembre 2013

Quanto vale vivere

...dal momento in cui mi hai risposto, ho deciso che tutto quello che mi succede a causa tua ti apparterrà. È-scritto-in-me-ed-è-scritto-in-te. Ogni pensiero, desiderio, passione, timore; ogni creatura, feto o aborto che concepirò a causa tua. È questo il fulcro del mio contratto con te, e solo con te, in virtù del quale rinuncio a ogni tentativo di corteggiamento, rinuncio a censurarmi e, più in generale, al diritto di difendermi...
(Che sollievo scrivere queste parole.)
Ma ecco, ho riletto quello che ho appena scritto.
Come mi piacerebbe scriverti diversamente. Come mi piacerebbe essere uno che scrive in un altro modo. Le mie parole sono così pesanti. In fondo avrebbe potuto anche essere semplicissimo, no? Come quando si chiede "Dimmi, piccino, dove ti fa male?", allora chiuderei gli occhi e scriverei in fretta: volesse il cielo che due estranei vincessero l'estraneità.
Il principio stesso dell'estraneità, carico di prescrizioni e conseguenze - il vertice del Cremlino, soddisfatto e sazio, che ci si è assestato nelle profondità dell'anima. Come vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un'iniezione di verità per dirla, finalmente, la verità. Sarei felice di poter dire a me stesso "Con lei ho stillato verità". Sì, è questo quello che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anche io lo sarò per te, prometto. Un coltello affilato ma misericordioso - parola tua. Non ricordavo nemmeno che fosse lecita. Un suono così delicato e ovattato. Una parola senza pelle (se la si ripete più volte a voce alta ci si può sentire come terra riarsa, e non è facile il momento in cui l'acqua s'infiltra fra le crepe). Sei stanca, mi obbligo a dirti buonanotte.

D. Grossman, Che tu sia per me il coltello


Da qualche giorno accumulo idee per un post sul blog, ma tra viaggi e lavoro non ce l'ho fatta.
E poi non avevo la chiave di volta, il perno su cui far ruotare queste idee che mi giravano in testa.
Poi stasera i miei "genitori" inglesi mi hanno fatto leggere una cosa, una di quelle catene che dice: Se hai più di 30 anni allora capirai che...
E via di esempi di merende a pane e marmellata, di bacchettate a scuola, di cadute dalla bicicletta che si concludevano con tua mamma che dopo averti medicato ti menava invece che con la corsa dall'avvocato per fare causa al comune per la buca nell'asfalto ecc ecc.
Ora, la nostalgia c'entra poco. Sono figlia degli anni 80 e nella mia vita non mi è successo niente di grave, eccetto nascere con una sensibilità eccezionale che ha trasformato in mostri cose da ogni giorno.
Il punto centrale è: soffrire è meraviglioso. Fare fatica. Attraversare tutto. Buttarsi sotto la doccia fredda, camminare sulla sabbia bollente. Accettare che tutto quello che arriva è sempre e solo per il meglio. Provare a cambiare le nostre risposte automatiche. Accettare che quando sei nato non puoi più nasconderti. Riconoscere che mi sono sradicata per radicarmi, che ho corso lontano per ritrovarmi, che ho aperto misteri solo per ritrovarmi a scoprirne altri, più preziosi, che ho camminato a testa in giù per accorgermi che era la posizione giusta.
Siamo tutti spaventati dalle difficoltà, dalla fatica. E controllare le vita quotidiana con cibi più sterili e (presumibilmente) più salutari, leggi e regolamenti, routines e piani per un futuro di successo, ci sembra un'ottima via di fuga.
Ma il nostro vero spavento, la nostra vera minaccia è sempre lì, e rischiamo di ritrovarla uguale a 80 anni.
La nostra vera minaccia siamo noi stessi, la nostra parte che non vogliamo guardare. La nostra metà oscura, in cui vive urla e strepita il nostro bambino ferito. Perché tutti siamo (stati) bambini feriti.
E l'unico modo di farci pace con questo bambino ferito non è regalargli le caramelle e distrarlo, ma trovare il coraggio di farlo piangere e consolarlo. E portarlo in giro con noi. E amarlo, nonostante la vergogna e il fastidio che ci provoca. E lasciare fare a lui. Che ci dirà quanto un frutto appena colto è meglio di un succo, un bacio meglio di un messaggio d'amore, una caduta dalla bici meglio di un pomeriggio davanti alla PS3.
Che dal dolore di questo bambino sgorga pura la vita nuova.
Eppure, ancora questo post non ha un gran senso, è solo un accumulo di cose. Ma se devo rispondere alla domanda che mi sono posta nel titolo, direi che vivere vale tutto, solo se è vivere più forte, non più a lungo.



domenica 3 novembre 2013

La migrazione dei pensieri - Un post mal miscelato sulla mescolanza.

Ho scritto ieri una cosa, e continuo a credere che sia vera: non bisogna lamentarsi. Non ad alta voce, e preferibilmente nemmeno tra sé e sé. Se possibile bisognerebbe astenersi dal lamentarsi anche del maltempo.
Noi siamo in gran parte il prodotto dei nostri pensieri, e se non li controlliamo o perlomeno monitoriamo, ne restiamo fottuti. Finiamo con il costruire un mondo orribile e vedremo persone orribili e vivremo una vita orribile, ovvero renderemo reale l'esatto specchio delle nostre lamentele.
Ma ciò mica significa che tutto vada bene.
Per esempio, in questi giorni in cui sono un po' provata dallo stare lontana dalla mia vita "normale" e soffro la provincia inglese, penso che questa cosa dell'allontanarci dalla nostra normalità sia in assoluto la prova più challenging and rewarding da fare nella vita. Tanto che, se fosse per me, dovrebbe essere obbligatorio.
Pensavo per esempio a chi dice che i migranti, se non stanno bene nel loro nuovo paese, avrebbero potuto stare a casa loro. Che poi chi lo dice sono persone, che io, dal fondo dei miei stereotipi, immagino elettori della Lega, che se vanno all'estero (generalmente a Sharm el Sheik e comunque non ci vanno sotto minaccia della guerra o della mancanza di cibo per i propri figli) si lamentano degli spaghetti scotti.
O pensavo a chi si lamenta di non riuscire a capire l'italiano di un migrante, e magari non lo capisce perché lo straniero usa i congiuntivi, mentre lui maneggia un dialetto travestito da italiano. O a chi si lamenta degli odori di cibo straniero nelle proprie scale. Non solo non hanno mai provato che cosa significa avere in bocca una lingua che non riesce a dire quello che vuole dire e nel cranio un cervello alieno e nelle narici altre consuetudini, ma non hanno nemmeno provato a pensarci.
E pensavo che quelli che hanno paura della contemporanea mescolanza, non riescono a pensare che le lingue, tutte le lingue, portano in sé i segni della millenaria mescolanza. Così come le cucine e il nostro sangue e la nostra tecnologia e i nostri frutti.  Ma nemmeno immaginano che se gli esseri umani fossero rimasti confinati dentro i confini, ora saremmo all'età della pietra.
E al di là della politica migratoria, vedere il mondo da un'altra prospettiva rispetto alla "nostra" ci insegna a walk a mile in someone else's shoes, a percorrere un pezzo di strada con le scarpe di qualcun altro, prima di giudicarlo. Quindi in fin dei conti, se io giudico quello che ero prima, una provinciale piena di paure e una milanese intellectual-hipster e mille altre mila cose, è perché ho camminato a lungo in quelle mie vecchie scarpe, e ci cammino ancora a tratti, volente o nolente

Concludendo, mi sono però accorta che se fosse obbligatorio vivere all'estero per un po', magari poi finirebbe che i pensieri di chi va forzatamente via, rimarrebbero uguali, perché molto più dei fatti, conta la nostra personale attitudine a farci modellare dai fatti, invece della scelta di rimanere granitici.
E insomma, mica è colpa loro se non riescono a camminare in scarpe altrui. Lasciare che la realtà ci sciolga (mescoli, fluidifichi, smorzi la nostra identità) è veramente un'impresa difficilissima.
E' così comodo e piacevole restare aggrappati a ciò che siamo. Potrei fare una lista delle cose che non riesco ad abbandonare, ma allora sì mi starei lamentando, e lamentarsi è IL male.


venerdì 25 ottobre 2013

Al cor gentile rempaira sempre amore ovvero che titolo della madonna

Tutti voi che abitate il mio cuore
chi siete
dove siete.
Siete me travestiti da voi.
Siete voi travestiti da me.
Volteggiate e giocate a nascondino
e.
Vi fate solidi e inamovibili.
E.
Ma sono io, che gioco ad essere voi.
Siete voi, che vi giocate di me.

Morbida e tiepida
come un rifugio antiaereo,
la caverna del mio cuore.
Rustica e solida
come una malga d'alpeggio.
Vi nutro, inondo e tengo il ritmo dei (per i) vostri abbracci.
Non c'è scelta nello scegliere,
non c'è essere nell'essere scelta.

Soffro il solletico.
Gradisco le grattate.
Fermo le ferite.
Sorrido i sospiri.

Ombre nell'Ade.
Se mi volto a cercarvi ve ne andate.
Se ve ne andate, mi volto a cercarvi.
Se mi cercate, mi volto a guardarvi.
Confondo i nomi, le storie, le date. Intreccio
amori e disfo legami. Mi confondete.
Mi rendete confusa.
Ma è chiaro infine. E il sangue si fa trasparente
e potente.
La perfetta somma della parti. La parte perfetta della somma.
La perfezione della somma della parti.
Tutto traspare. Tutto risuona.
Tutto tace.
Tutto, non vinto, soggiace.
Tutto rinasce.







martedì 22 ottobre 2013

La lingua madre (e matrigna)

Do you think I know what I'm doing?
That for one breath or half-breath I belong to myself?
As much as a pen knows what it's writing,
or the ball can guess where it's going next.

Jelaluddin Rumi

Mi accorgo che il mio inglese è migliorato, perché da quando sono sola e penso in italiano a quando riesco a far fluire una conversazione in inglese, il tempo si sta notevolmente riducendo.
Lo switch è più veloce e meno traumatico, e la conversazione sempre più spedita.
Riflettere sulla padronanza di una seconda lingua mi ha fatto accorgere di una cosa, che ho sempre sospettato.
Il linguaggio, di qualsiasi tipo, è il nostro unico strumento per comunicare il nostro mondo, la nostra esperienza interiore. Non ne possiamo fare a meno perché abbiamo bisogno di avvicinare gli altri alla nostra realtà (nonché di provare a intuire quello che gli altri sentono), ma il linguaggio è sempre un tradimento della realtà.
Così come la traduzione da una lingua all'altra è un tradimento.
E mi accorgo che parlare una lingua che non è la mia, e mai lo sarà, (guardate questo splendido reading di una poesia di Sujata Batt) mi sta riportando ad una semplicità e ad una maggiore aderenza al reale.
Non posso nascondermi dietro complicate evoluzione verbali, sintattiche o retoriche in inglese. I can but keep it simple. And real.
Il godimento di avvicinare una qualsiasi questione e analizzarla da molti punti di vista grazie al linguaggio è innegabile, ed anche un processo certamente utile. Ma  spesso scambiamo la decorazione, l'analisi, la sofisticatezza per la realtà. Che stupido errore, la realtà è semplice. Davvero semplice.
Come il mio inglese, come il linguaggio dei bambini.
Come qualcosa a cui abbandonarsi. Come una tigre nella foresta, agile e scattante e totalmente presente in ciò che fa. E una tigre, in punta di penna e in punta di lingua non la potremo mai addomesticare. E se anche riuscissimo, in punta di frustino, ad addomesticarla, l'avremmo solo privata della sua grandiosa bellezza e ridotta ad uno spettacolo da circo.
E' questo che vuoi, dalla realtà?



domenica 20 ottobre 2013

Che a volte mi devo dire che sono bravona!

Per la prima volta dopo molto, troppo tempo, so precisamente chi sono, a che punto sono, che cosa sto facendo e perché, e apprezzo anche il come.
È magnifico. È magnifico che sia ancora possibile.


martedì 15 ottobre 2013

Se il mondo non scompare in un buco nero


You must have chaos within you to give birth to a dancing star.
Friedrich Nietzsche, allegedly

Se il mondo non scompare in un buco nero è grazie ai bambini che sbagliano per imparare, agli adolescenti che vogliono solo crescere davanti ai tuoi occhi adoranti e vederti con un sorriso una volta ogni tanto, ai migranti che rimescolano lingue razze usanze che altrimenti andrebbero a male, a chi ci prova fortissimo, ai cercatori di pepite d'oro, agli incontentabili sempre soddisfatti delle loro ricerche e mai dei loro risultati, ai cacciatori di formiche, a chi non ammazza le api pigre intrappolate a ottobre in una stanza,  a chi trova forme nelle nuvole, a chi si da dello stupido e poi per consolarsi si mangia la nutella, a chi balla da solo in camera, a chi crea dal nulla, a chi annusa il fieno e lo smog, a chi coltiva gerani in città.
Se il mondo non scompare in un buco nero istantaneo è per lo spazio che creiamo in noi per accogliere follia, bellezza, insensatezza, gratuità, amore, capriole e stelle.


sabato 12 ottobre 2013

Faber est suae quisque fortunae

Come è possibile non credere al karma? O perlomeno non credere che le cose che dobbiamo affrontare ci si presentino sempre, e in forma sempre più difficile, se non le affrontiamo la prima volta?
No, perché per me è impossibile. Io non mi so spiegare altrimenti questo pezzo di vita in cui sono adesso.
Sono nella versione inglese di RdL, il mio bergamasco paese d'origine di cui molte volte parlai in questo blog. Pianura, freddo, campagna, vaga noia. Ciò che devo affrontare è chiaro: trovare un senso non nella frenesia della vita, ma nella vita.
Vivo con una coppia di signori che, cattivo gusto nell'arredamento a parte, mi ricordano molto i miei. Gran lavoratori, semplici, battuta pronta, nazionalismo di facciata, orto e poche pretese culturali. Ciò che devo affrontare: la mia spocchia para intellettuale e artistoide.
Non ho veri e propri amici finora, e cerco di evitare di vivere incollata alla tecnologia per parlare con gli amici italiani. Ciò che devo affrontare: la solitudine, l'aspettarmi sempre che qualcuno si occupi e preoccupi per me.
Ho la sensazione che questa non sarà la mia condizione di vita per sempre, ma che sia una specie di purgatorio in cui, mentre mi purifico da scorie passate, riesco a mettere a fuoco il mio futuro, e a gettare semi perché fiorisca.
Del resto occuparsi del proprio karma è proprio andare a ripescare le cause dell'attuale sofferenza, e con atti volontari benefici, far sì che smettano di proliferare, piantando invece semi di futura felicità.
Let's get the job done.


sabato 5 ottobre 2013

Lampedusa

Questo disastro di Lampedusa è, per me, una sorta di tragica epifania, così potente che vorrei fingere di non curarmene, perché mi devasta ogni volta che la incontro nei miei pensieri o nelle mie letture.
Mi sconvolge le priorità, gli interessi, le prospettive. Mi fa piangere tutte le lacrime che non ho versato nemmeno per amore o per rabbia o per dolore. Mi fa riconoscere, ricordare, realizzare ciò che è davvero importante e ciò che è vacuo. Che gli esseri umani siano trattati da esseri umani, che siano messi in condizione di poter essere umani e non solo di essere vivi, questo è l'importante. Tutto il resto conta poco. Conta come il due di coppe quando comanda bastoni, avrebbe detto la mia amata nonna Maria, che era saggia e adesso se fosse viva sgranerebbe rosari per quei poveri negretti sconosciuti.
E mi è ben chiaro ciò che dice Michele Serra. Ed è questo sentimento di superiorità di cui lui parla a farci tracciare la linea di demarcazione tra noi e gli stranieri. La linea che mi attraversa, e che mi vorrebbe dire che io ho più valore se faccio e vivo in un certo modo piuttosto che in un altro, invece di dirmi che ho valore in me. E come io, tu, e gli "altri". Quegli altri che ci infastidiscono, in Lombardia come nel Lincolnshire, dove  sono spaventati da polacchi, lituani e portoghesi che lavorano nella "loro" terra. Perché poi quando si aggirano per Boston, hanno pure l'ardire di parlare la "loro" lingua, invece della nostra.
Ma questa ricchezza che, frutto di lontane origini predatorie, ci intontisce perché così diffusa, data per scontata, rivendicata e sprecata non durerà per sempre, anzi, sta già mostrando la corda. Il capitalismo, come Marx aveva previsto, ce lo metterà in quel posto a tutti. Loro, coloro che sono già ricchi oltre l'immaginabile e che lo diventeranno via via sempre di più, fanno il loro gioco "divide et impera" e noi ci caschiamo come polli. Poveri noi. Poveri i nostri figli. E poveri anche loro, pieni di soldi e potere e civiltà e privi di umanità.
E allora mi viene in mente questo:
When they came for the Jews and the blacks, I turned away
When they came for the writers and the thinkers and the radicals and the protestors, I turned away
When they came for the gays, and the minorities, and the utopians, and the dancers, I turned away
And when they came for me, I turned around and around, and there was nobody left.

mercoledì 2 ottobre 2013

Don't carry the world upon your shoulders

Non sono io che devo cercare la verità (il senso, l'amore, Dio). Anche perché c'è il concreto rischio che strangoli la verità mentre cerco di fermarla, nel fugace momento in cui mi passa davanti.
Forse è la verità (il senso, l'amore, Dio) che mi deve cercare. E io? Io che cosa devo fare? 
Io posso semplicemente non nascondermi, lasciarmi trovare e arrendermi. 

martedì 1 ottobre 2013

Da grande

Sono qui in un posto sperduto, a fare una sorta di training come insegnante, e mi chiedo se nella mia vita voglio davvero fare la prof fino alla pensione (o alla morte, visto che la mia generazione la pensione probabilmente non l'avrà mai).
Insegnare mi piace, ma considero alternative. Vedo una parte di me che ha voglia di fare altro, di cimentarsi, che teme la frustrazione di ambizioni abbandonate, la noia di una vita sempre nello stesso posto, la fatica di uno stipendio non esattamente esaltante, la patina di naftalina e lo scarso appeal associato agli insegnanti.
Vedo e so che ho talenti in abbondanza, e che anche se non sono esattamente un genio a metterli a frutto, sono lì. E mi fa strano ammetterlo, ma ho finalmente smesso la falsa modestia che sempre si accompagna alla vanità, e so riconoscere sia le mie capacità sia i miei limiti.
Poi leggo di persone che come me (ma molto meglio di me come risultati)  hanno fatto lavori nell'ambito creativo. E che sono a spasso. Perché non c'è lavoro, e per quello che c'è le aziende preferiscono gli stagisti o le persone molto giovani, che si possono permettere di farsi pagare poco.
E vedo la fatica per mettere via due soldi per autofinanziarmi un progetto.
E vedo la fatica di chi ce la fa a lavorare nel settore, che non può fermarsi un momento altrimenti è fuori dal giro e devo fare pubbliche relazioni costantemente e diventare un paraculo e essere on 24/7. Per fare alcuni lavori bisogna diventare indispensabili, e diventare indispensabili è un lavoro duro e quasi totalizzante.
E vedo le statistiche sulla disoccupazione in Italia, nonché percepisco aria pesante anche qui in Inghilterra, e quindi dovrei considerarmi fortunata se troverò un lavoro come insegnante.
Quindi di nuovo mi chiedo: che cosa voglio? Ed è una domanda che mi spaventa, perché mette in gioco moltissimi parametri che vanno poi inseriti in una scala di priorità ben chiara: i soldi, la felicità, il tempo libero, l'idea di una famiglia, il senso di utilità, la volontà di ricevere complimenti o sentirmi speciale (chiamasi anche ambizione), la serenità, l'immagine di me, l'autorealizzazione vera o presunta e molti altri. Scegliere che cosa fare da grandi, pur nella consapevolezza che le cose possono sempre cambiare, è in qualche forma scegliere chi si vuole essere. E le scelte mi fanno paura, da sempre. Sono la potatura di una parte, potenziale o reale, di me.
Però non riesco a non pensare che è indispensabile fare come nella frase cantata dal buon vecchio Guccini in Eskimo (Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà), e mi considererò brava solo riuscirò a scegliere invece che a farmi trascinare lenta in una vita arrivata per caso o per ripiego.
Che la vera povertà alla fine è una cosa sola: non avere la possibilità di scegliere (o, anche, non riuscire a scegliere quello che c'è)
Il problema è, per me e per i miei limiti caratteriali, la consapevolezza che a volte, pur scegliendo qualcosa, non lo si ottiene. And it sucks.
PS: Stavo per pubblicare questo post, ma ero insoddisfatta. Perché non mi piace granché ed è pure realmente pesante e depresso, sarà perché oggi è il primo fottuto ottobre. Mentre ci riflettevo lasciandolo riposare come la pasta per la pizza, ho trovato pubblicata su FB questa frase di Mordecai Richler: "Un ragazzo può essere due, tre, quattro persone potenziali, ma un un uomo una sola: quella che ha ucciso le altre".
Ed è vera, perfettamente scritta e poco consolatoria. Ma ciò che mi consola è il fatto che ancora una volta mi guardo intorno e ciò che trovo è esattamente quello che mi serve.
Quindi, mi sembra più facile scegliere, ora che ho di nuovo fiducia nell'universo.

Ricordarsi le domande per coltivare le risposte

Non c'entra niente con le cose che ho vissuto e fatto oggi.
Eppure, o proprio per questo, so che questo video è l'unica cosa sensata della giornata.
Sensata perché insensata, rivoluzionaria, folle e facilmente travisabile. Delicata, anche se sembra solo una boutade.
Chi sono io? Che cosa me ne faccio del mio io? Chi è l'altro? Che cosa me ne faccio dell'altro? Che cosa gli faccio? Come sto dentro l'inevitabile insensatezza di essere viva? Che cosa desidero? Come ottenerlo? Come trovare i modi giusti per arrivarci, che ormai so che contano più quelli dell'obiettivo? Come si fa a costruire un aquilone e a farlo volare?

martedì 24 settembre 2013

Della comprensione

La vita è maestra di vita. Ogni giorno è possibile capire qualcosa in più del precedente, restando aperti, vigili, sereni e consapevoli. (Jesus Christ, come sono noiosa!) 
Ieri pensavo di aver capito che c'è sempre una possibilità di riscossa per tutti. Avevo infatti visto la versione inglese di X-factor e mi ero resa conto che quel bell'uomo della giuria altri non era che Gary Barlow, il ciccione dei Take That, back in the early '90s. 
Poi ho pensato di aver capito che la questione: "Non mi chiama? Perchè? Che cosa devo fare?" fosse ormai decisamente irrilevante per me, e che l'unica risposta che volevo dare alla 40enne totalmente esaurita che mi faceva queste domande era "La verità è che non gli piaci abbastanza. E coraggio, adesso fatti una vita."
Poi invece ho capito che la vera lezione della giornata era contenuta nella foto qui sotto, trovata su FB. E ho smesso di cercare, almeno per un po'. Mi sono messa piuttosto a pensare a che cosa avrei cambiato del mio comportamento del passato, se avessi compreso questa verità in tempo. Ma ho smesso subito, perché mi sono sentita una cretina. Avrei cambiato millemila cose in me, e capito da chi stare alla larga in meno di un secondo. 
E allora ho capito che avevo davvero capito che quello che si capisce è solo quello che si può capire quando lo si capisce. Capito?


mercoledì 18 settembre 2013

Dell'essere single

Allora, mica è facile scrivere questo post.
Perché una parte di me è piuttosto addolorata per non essere amata e, ancor di più forse, per non poter amare nessuno in maniera non dico esclusiva (non lo dico più, perché non ha senso) ma preminente, peculiare, con uno scopo comune benché in libertà.
Però, cari amici che mi scrivete o mi chiamate, io ve lo devo dire. Essere single non è una malattia, almeno, se lo è, mica lo sapevo. Quindi evitate di auspicarmi un prossimo fidanzamento perché a) mi ricordate che non sono fidanzata e che anzi, in forma diverse sono stata mollata da due persone nel giro di 6 mesi b) mi fate riavvicinare pericolosamente ad una parte di me che ha il terrore dell'abbandono, motivo per cui mi sono sputtanata un sacco di anni di vita, e ora che questo piccolo mostro dentro di me, vorrei lasciarlo dormire c) mi fate venire voglia di dire che non me ne frega niente.
E non sarebbe vero, ovviamente.
Mi fidanzerò se (anzi, quando) mi innamorerò di qualcuno, che a sua volta si innamorerà di me. No matter what, in entrambi i casi. Ovvero senza se e senza ma. Senza trattenersi e senza rincoglionire. Ma su quest'ultima possibilità, quella del rincoglionimento, sono tranquilla: ho un'età, quasi critica oltre che cristica ormai, per cui non ci si innamora di un coglione qualsiasi come a 20 anni.
Ma certamente non accadrà che mi fidanzi con qualcuno giusto per non rimanere da sola.
Non ho ribaltato la mia vita, provando a non essere "borghese" nel senso specifico che io attribuisco a questa parola (conformista, incapace di osare, timoroso del giudizio altrui, spaventato dalla diversità e dalla creatività, noioso non perché stabile ma perché sprovvisto di curiosità) negli ultimi 2 anni per arrivare a questo. Proprio no.
So, leave me alone. Auspicatemi di innamorarmi piuttosto, e di essere ricambiata, ma anche questo auspicio, tenetelo per voi. I would appreciate it.


martedì 17 settembre 2013

Punk never die

Dopo aver scritto a tutti quelli che stanno affittando casa a Boston, ma proprio tutti (ovvero circa 7 persone), scrivo il mio primo misanderstanding dall'Inghilterra.
E insomma, un po' mi sembra ridicolo quello che sto per scrivere. Sto diventando una persona noiosissima, era così bello quando ero arrabbiata con tutti e tutto e odiavo l'universo e vi odiavo, oltre ad odiarmi.
Comunque, tra le cose noiose che ho imparato a fare c'è la pratica dell'assecondare le cose che arrivano, semplicemente lasciandole essere e dispiegare, il più possibile.
Quindi, con un briciolo di rimpianto per la Marilisa punk che ha avuto il suo momento di splendore ma che ormai si è ritirata e la mattina beve succo d'ananas invece che i resti caldi della lattina di birra della LIDL, vi dico che tutti i messaggi pre e post partenza ricevuti da moltissime persone sono qualcosa che mi commuove.
Mi commuove profondamente. E forse c'è una parte di me totalmente vanagloriosa ed egocentrica che vede come una giusta ricompensa il vostro affetto (io non sono nessuno per escludere questa possibilità, che il nostro cuore è un abisso di bellezza quanto di nefandezza) ma la cosa bellissima è che vedo, sento, percepisco, riconosco come reale questa rete di affetto.
Esiste, concretamente. Non perché mi aiutate o mi avete aiutato a fare questo o quell'altro o perché non ho la malinconia (finora non ne ho avuto né il tempo né l'occasione, sinceramente) ma proprio esiste, come questa tastiera su cui sto scrivendo esiste secondo le leggi della fisica newtoniana. Che se mi butto, questa rete d'affetto mi sorregge.
E ora, chi nega l'esistenza reale dell'amore è un povero coglione che non ha capito un cazzo e per quanto mi riguarda si può impiccare.


PS: scherzo. Vi amo tutti. Comunque.  (questo ps è la cosa più triste e meno autoironica e più didascalica dell'universo)

lunedì 9 settembre 2013

Una cosa che invece posso imparare

Posso imparare a vivere leggera. Poche cose, pochi ricordi, pochi pensieri, poche paranoie.
Ogni cosa che possediamo è un ricordo, ogni ricordo ci vincola a qualcosa che non siamo più, ma che ci viene prepotentemente sbattuto in faccia, ogni ricordo genera un pensiero, che se non siamo capaci di controllare diventa una paranoia.
Noi siamo anche il nostro passato, ed è quindi bellissima l'idea della madeleine di Proust, ma credo sia meglio che sia la vita a sbattercela davanti, invece di collezionare potenziali madeleine dentro ogni armadio, cassetto, borsa, valigia.
Mia mamma accumula accumula accumula ogni cosa, ogni armadio che si è liberato in casa man mano che noi figlie ce ne siamo andate è stato invaso da vestiti, fogli, oggetti, regali mai aperti e regali inutilizzati. Non riesce a liberarsi di niente.
Io sono un po' come lei, ma poi per la paranoia opposta mi viene voglia di fare come San Francesco e dare tutto quello che ho ai poveri.
Ecco, magari diventare saggi è trovare una via di mezzo. Ci proverò. Però la maglietta rossa, quella che ho comprato a Valencia, no, non la butto. E nemmeno il quaderno di italiano delle medie, e forse nemmeno il mixtape che mi ha regalato Alberto quando avevo 14 anni, e nemmeno il vestito che avevo quando sono uscita per la prima volta con quell'idiota, e nemmeno Vogue di due anni fa, perché mi può sempre essere utile per i collage...
Maledetto passato che non passa!
Ma insomma: Proust ha scritto la Recherce, che se è stata letta integralmente da 25 persone che non siano studiosi di letteratura francese è un miracolo. Ed era pure un certo esaurito che viveva in una camera insonorizzata. Quindi riassumendo:

domenica 8 settembre 2013

I miei amici

Sono a letto con la luce spenta per via di un discreto hangover. 
E penso che i miei amici mi hanno salvato la vita. E non solo ieri sera, non facendomi guidare. E non solo quelli che c'erano ieri sera.
E penso che una vita è troppa roba perché una sola persona, di solito colui o colei che definiamo l'uomo o la donna della nostra vita, la possa salvare. Ma che se anche è vero che solo noi possiamo salvare le nostre vite, è indispensabile che ci sia qualcuno intorno. Qualcuno che la vita te la salva mentre mangi le patatine e dici le cazzate e vai al mare e guardi un film e ti presti i libri. 
È penso che questi saluti siano la presa di coscienza di quanto di loro ci sia in me, che alla fine anche chi ho amato 10 anni fa verrà in qualche forma con me a Spilsby e ovunque andrò.
E penso che sono la mia nuova famiglia, i miei amici. Ne ho un'altra, ne ho molte altre. 
E penso che mi piacciono le persone, tutte, anche quelle che non conosco, perché ho finalmente capito che quando si vuol bene a qualcuno non è per meriti speciali, perché questo o questa se lo meritino più degli altri, ma semplicemente capita e ci si deve rassegnare. Ho degli amici che reputo un po' scemi, ma restano amici, desidero il loro bene, voglio che ridano e siano felici. Voglio farli ridere io. E allora posso desiderare il bene anche per gli sconosciuti. E forse qualcuno può voler bene pure a me, visto che non serve essere perfetti per essere amati. 
E penso che tutto questo amore io non lo sapevo vedere. 
E penso che ero proprio una cretina. E che se finalmente lo sono un po' meno, lo devo anche e soprattutto ai miei amici. Vicini lontani passati e attuali. 

sabato 7 settembre 2013

Una cosa che non si può imparare. F**k!

Puoi uscire con un sacco di persone.
Capire già dopo due volte, abbondando, se vale la pena oppure no.
Piangere per i tuoi ex.
Rallegrarti che siano tali.
Andare oltre tutti i rancori e i rimpianti.
Ascoltare le storie tristi o felici altrui.
Dare consigli, sciocchi in quanto saggi e quindi inutili.
Amare molti e molte, ovvero volergli del bene sincero.
Accettare il loro affetto sincero.
Superare l'imprinting paterno/materno.
Puoi essere felice da sola.
Puoi non fare dell'amore di coppia una tragedia o lo scopo della vita.
Puoi esplorare, sperimentare, conoscere, essere grata. Divertirti.
Puoi ascoltare canzoni romantiche e studiare l'amore.
Ma c'è una cosa non si impara. Ed è l'unica veramente bellissima.
L'unica che vorrei davvero.
Come cazzo si fa ad innamorarsi?


giovedì 5 settembre 2013

Vorrei dipingere di rosso la mia stanza

Un vecchio contadino aveva un vecchio cavallo per il lavoro dei campi. Un giorno il cavallo scappò in montagna, e quando tutti i vicini del contadino deplorarono la sua sfortuna, il contadino rispose: "Fortuna? Sfortuna? Chi lo sa?".
Una settimana più tardi il cavallo tornò dalla montagna con una mandria di cavalli selvaggi e questa volta i vicini del contadino si congratularono con lui per la sua fortuna. La sua risposta fu ancora: "Fortuna? Sfortuna? Chi lo sa?".
Quando il figlio del contadino tentò di domare un cavallo selvaggio, cadde da cavallo e si ruppe una gamba. Ognuno considerò ciò come una grossa sfortuna. Non però il contadino, che disse solo: "Fortuna? Sfortuna? Chi lo sa?".
Un paio di settimane più tardi l'esercito marciò sul villaggio e reclutò ogni giovane utile che poté trovare, ma quando videro il figlio del contadino con la sua gamba rotta, lo rimandarono indietro. 

Racconto tradizionale cinese

Ho passato minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni a etichettare ciò che mi succedeva come una benedizione o una maledizione, provando a ricostruire con lunghissime sequenze mentali quali sarebbero state le conseguenze nel breve, medio e lungo periodo di ciò che stavo vivendo e facendo. 
Di previsioni ne ho azzeccate veramente poche. Perché non si può sapere. Le cose accadono, e l'attribuzione di un senso di sfortuna/fortuna è solo uno spreco di energie. Che ci consegna all'eterna infelicità in cui sospirando "Ah, se fosse successo questo!" "Ah, se potessi avere quello!" ci alieniamo da quello che veramente abbiamo: il presente.
Nel presente decidiamo tutto, e possiamo essere presenti nel presente se evitiamo la valutazione buono/cattivo, fortuna/sfortuna, se anche nel presente siamo liberi dal giudizio, che è frutto del mero attaccamento o della mera avversione. Certo che ci piacciono le cose gradevoli, facili e belle, ma queste possono farci pagare frutti amari in futuro, quindi non vale la pena restarci attaccati. Certo che non ci piacciono le cose sgradevoli, brutte o faticose, ma queste possono ricompensarci grandemente in futuro. Ma non lo possiamo sapere, quindi il distacco, da ciò che ci è accaduto, da ciò che ci accade e da ciò che ci accadrà è essenziale.
E per me questo non significa non avere passioni, entusiasmi, obiettivi, desideri. Anzi, in questo modo mi è possibile vederli in modo più pulito, perseguirli con maggior facilità, lasciarli andare con grande tranquillità. Perché niente di ciò che mi è accaduto, mi accade e mi accadrà sono io, la vera io. 
Serve una presenza fortissima e pienissima per vivere nel distacco, nel perenne sorriso di chi vede le cose arrivare, le vive, ed è pronto a lasciarle andare. Il risultato è una rotonda felicità, che però non assomiglia più all'up del bipolare, a cui seguiva sempre un down devastante, ma ricorda invece qualcosa che rotola morbido, in accordo con il costante mutare del mondo.