lunedì 30 dicembre 2013

David Forster Wallace, il duemilacredici, l'ironia, le relazioni

Nonostante abbia tutt'altro da fare, mi sono messa a leggere cose on line su e di David Forster Wallace, lo scrittore per il cui suicidio piansi come per la perdita di un amico vero.
Ho messo insieme una serie di citazioni.

“If you can think of times in your life that you’ve treated people with extraordinary decency and love, and pure uninterested concern, just because they were valuable as human beings. The ability to do that with ourselves. To treat ourselves the way we would treat a really good, precious friend. Or a tiny child of ours that we absolutely loved more than life itself. And I think it’s probably possible to achieve that. I think part of the job we’re here for is to learn how to do it”

“Everybody is identical in their secret unspoken belief that way deep down they are different from everyone else.”

“The truth will set you free. But not until it is finished with you.”

“What passes for hip cynical transcendence of sentiment is really some kind of fear of being really human, since to be really human [...] is probably to be unavoidably sentimental and naïve and goo-prone and generally pathetic.”

“The parts of me that used to think I was different or smarter or whatever, almost made me die.”


And make no mistake: irony tyrannizes us. The reason why our pervasive cultural irony is at once so powerful and so unsatisfying is that an ironist is impossible to pin down. All U.S. irony is based on an implicit "I don’t really mean what I’m saying." So what does irony as a cultural norm mean to say? That it’s impossible to mean what you say? That maybe it’s too bad it’s impossible, but wake up and smell the coffee already? Most likely, I think, today’s irony ends up saying: "How totally banal of you to ask what I really mean."

Di queste citazioni, inizialmente non ne vedevo il senso generale, non sapevo che cosa andavo cercando.
Ma ora lo vedo, ed è perfetto per la fine di questo duemilacredici. Il duemilaecredici mi ha portato un senso. Dopo un lungo periodo di assenza da me, dopo un periodo di ribaltamento generale di me, il duemilacredici mi ha portato a crederci. A crederci perché so. Perché ho usato l'ironia per distruggere ciò a cui credevo per comodità o sentito dire, e ora posso rilassarmi nelle cose e smetterla di smontarle, anche quelle che mi fanno bene, e smetterla di prendere tutto come se fosse un gioco. Perché è un gioco, tutto, ma un gioco molto serio. Ci sono di mezzo altre persone, ci sono di mezzo io. C'è di mezzo l'umanità mia, vostra e di tutti da conservare. C'è di mezzo anche il mondo. Se si gioca nelle relazioni inconsapevolmente o disperatamente come ho fatto per molto tempo, ci si fa male, e si fa del male. Se si gioca politicamente ed economicamente come giocano i neoliberisti, distruggiamo il mondo. E non possiamo farlo. A meno che davvero siamo così disperati da non credere che i nostri figli e nipoti (reali o semplicemente fratelli in umanità) meritino un passaggio che sia pienamente umano su questa Terra. Ma se siamo così disperati, potremmo pure toglierci di mezzo, invece di riempire la nostra miserevole vita con l'orrore. 
Amo ridere, ancora. Amo distruggere e provocare. Mi piace prendere in giro le cose che più amo, ma appunto, provo a farlo con amore. Provo ad essere presente in questa fatica che il voler essere umani, totalmente umani, comporta. Provo a usare l'ironia per distruggere ciò che va distrutto, e l'amore per conservare ciò che va conservato. Non applico più l'ironia totale.
L'ironia totale è il marchio del postmoderno. Significa affermare che non c'è niente per cui vale la pena credere e per cui comportarsi rettamente e sforzarsi di essere migliori. L'ironia totale è Bret Easton Ellis, che ho letto, ma che non mi dice niente di nuovo. Mi racconta la disperazione per il gusto di raccontarmela, ma non si sforza di trovare alternative. E lo trovo disgustoso, perché nella sua vita sono certa abbia trovato alternative alla sua mancanza di senso, e creare un'opera d'arte che semplicemente appaghi l'ego ma non porta il letture in nessun posto più bello, non mi aiuta a ricostruire un senso del mondo, ma solo a godere dell'orrore (a tratti indubitabile) della vita come un entomologo, è per me orribile e unfair. 
L'ironia totale è vedere solo me. La mancanza di ironia è evitare di vedere me, perché non posso permettermi di ridere di me. Ecco, io ora sto da qualche parte lì in mezzo. 
L'altro giorno una mia amica mi diceva che la vita di coppia è innaturale, troppo faticosa. E' vero, è mostruosamente faticoso amare, non solo nella coppia. Ma anche meditare, ed essere coscienti di che cosa si fa, di quello che sento, di quello che posso provocare nell'altro e nel mondo è difficilissimo.
E allora che alternative abbiamo? Che alternative ho? Vivere ad cazzum? Io non ne ho voglia. Io, nel duemilaecredici, ho capito che non riesco a vivere ad cazzum, e che non voglio. 
E che la disperazione dell'ironia, se a volte serve per vedere chiare le cose, e per ridere delle nostre miserie, non esaurisce il senso del mondo. 
E di fronte all'ammissione di DFW che il suo sentirsi diverso (strano?) e più intelligente quasi l'ha fatto morire, lui che già a 17 anni tentò il suicidio, mi sono venuti i brividi. Perché alla fine DFW si è comunque suicidato. E il suo amico scrittore Jonathan Franzen, che se ne è andato su un'isola con le ceneri di DFW per capire perché si è suicidato, chiude il pezzo sulla sua ricerca di senso si un gesto senza senso così. 
E io lo condivido in pieno. 

Exactly halfway through “Robinson Crusoe,” when Robinson has been alone for fifteen years, he discovers a single human footprint on the beach and is literally made crazy by “the fear of man.” After concluding that the footprint is neither his own nor the Devil’s but, rather, some cannibal intruder’s, he remakes his garden island into a fortress, and for several years he can think of little but concealing himself and repelling imagined invaders. He marvels at the irony that:

"I whose only affliction was, that I seem’d banish’d from human society, that I was alone, circumscrib’d by the boundless ocean, cut off from mankind, and condemn’d to what I call’d silent life . . . that I should now tremble at the very apprehensions of seeing a man, and was ready to sink into the ground at but the shadow, or silent appearance of a man’s having set his foot in the island."

Nowhere was Defoe’s psychology more acute than in his imagination of Robinson’s response to the rupture of his solitude. He gave us the first realistic portrait of the radically isolated individual, and then, as if impelled by novelistic truth, he showed us how sick and crazy radical individualism really is. No matter how carefully we defend our selves, all it takes is one footprint of another real person to recall us to the endlessly interesting hazards of living relationships. Even Facebook, whose users collectively spend billions of hours renovating their self-regarding projections, contains an ontological exit door, the Relationship Status menu, among whose options is the phrase “It’s complicated.” This may be a euphemism for “on my way out,” but it’s also a description of all the other options. As long as we have such complications, how dare we be bored? 


venerdì 27 dicembre 2013

Duemilacredici -5

Ancora qualche giorno di duemilacredici.
Metto in fila delle parole, che ho incrociato e a cui ho provato a dare un senso.
Resilienza
Smoothness
Perdere
Vincere
Provare
Cambiare
Osare
Sorridere
Accettare
Confini
Apertura
Essenza
Obiettivi.

E ricordo un momento, che nonostante l'insignificanza nell'economia della mia vita, mi porto in tasca come memento della vita come dovrebbe e potrebbe essere.
Ero a Milano in bicicletta in un giorno di sole. I pantaloncini di jeans appena tagliati da me, per risparmiare. Una collana colorata. Le cuffie appena ricomprate, rosa. Stevie Wonder che canta Higher ground. Mi fermo ad uno stop in circonvallazione. Non me ne accorgo, ma sto ballando. Un ciclista, maschio, quarantenne, rossiccio mi pare, mi si avvicina. Sorride. E mi dice: "Wow, dev'essere figo quello che ascolti". Gli passo un auricolare e mi dice: "Eh sì, hai ragione" e balla per due secondi anche lui. Rido.
Ripartiamo entrambi, nel sole di Milano, nell'appiccicume di Milano d'estate, nel traffico di Milano che era pronto a esplodere dietro di noi.
Ci sorridiamo, e niente, parrebbe la fine della storia.
Ma non lo è. Perché io mi ricordo di lui, di un gesto disinteressato, pieno di curiosità e bellezza, pieno di una voglia di vita che c'è dovunque. E da nessuna parte, se non te la porti dentro.
E che non esiste, se te la porti dentro ma non la condividi.
E quindi liste, decaloghi, abitudini, esperimenti, lamentele, scopi, obiettivi e tutte le cose con cui puntello la mia vita, non valete un cazzo. Se non lascio spazio alla gioia di vivere per il puro gusto di vivere.

Ecco, il duemilacredici mi ha insegnato questo. Ma le liste, ecco le liste continuano a piacermi. Eccone una.





mercoledì 25 dicembre 2013

Il Natale, nonostante il Natale

Natale. Guardo il presepe scolpito, dove sono i pastori appena giunti alla povera stalla di Betlemme. Anche i Re Magi nelle lunghe vesti salutano il potente Re del mondo. Pace nella finzione e nel silenzio delle figure di legno: ecco i vecchi del villaggio e la stella che risplende, e l'asinello di colore azzurro. Pace nel cuore di Cristo in eterno; ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. Anche con Cristo e sono venti secoli il fratello si scaglia sul fratello. Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino che morirà poi in croce fra due ladri? 
Salvatore Quasimodo


Mio nipote Lorenzo ha declamato questa poesia poche ore fa. 
E mi ha commosso. 
Perché Natale è un momento nell'anno in cui crediamo. Crediamo nella possibilità di qualcosa di diverso da ciò che siamo e da ciò in cui crediamo. Natale è un momento in cui siamo vulnerabili, e quando siamo vulnerabili siamo più belli, più forti, più umani. 
Tutti gli orribili film USA sul Natale parlano di questo, la capacità di credere ancora, di stupirsi, di essere gentili, generosi ecc ecc. Ma perché sono tremendi? 
Ci ho pensato a lungo nei giorni scorsi, dopo averne visti un paio in tv. Stavo per girare canale, ma poi ho deciso di andare fino in fondo. E ho capito che sono tremendi perché ci dicono quanto è bello e facile credere, quando scende la neve e le case sono decorate, ma tacciono sul resto. Tacciono sugli altri giorni dell'anno e sugli altri posti del mondo. Guardi quei film e sembra che credere si possa fare solo a Natale, in Nordamerica. E il resto del tempo e dello spazio siano destinati all'assenza di speranza. E i film di Natale mi fanno venire voglia di non credere più a niente. Cazzo, io non voglio i vostri sogni. 
Ma ho deciso di fermarmi un attimo prima di questo rifiuto, e di analizzare a che cosa credo, quando a Natale credo. 
Credo, nel senso della fede, nella nascita di un bambino speciale. Non ci credo molto, cioè, la storia è bellissima e piena di significati allegorici e a me piace credere nelle storie, ma proprio credere nel senso della fede per cui quella è LA verità, no. Ma posso comunque crederci. 
Credo nello spendere i miei soldi e la mia attenzione per qualcuno che non sia io.
Credo che l'amore esista e che passi anche nella mia famiglia, che mi ama a sua volta. Ma lo credo con questa intensità solo a Natale. A Natale li amo nonostante i loro difetti. 
Credo che esista dio, anche se non so che nome dargli. Perlomeno credo che esita una possibilità di essere più umani. 
Credo che possiamo essere bambini per sempre, anche se ci fa male sapere che non lo saremo mai più. 
Credo che il mondo abbia un senso, che è piccolo e non ha niente a che vedere con i soldi e il successo. E credo che questo senso potrebbe essere condiviso. Credo che l'egoismo non sia l'unica via. 
Credo che ognuno abbia il diritto alla pienezza di vita, e che tutti i nostri talenti possano essere spesi, e che non farlo sia orribile, non solo per noi, ma per tutti gli altri.
Credo che chi è venuto prima di me ha agito in buona fede per darmi questo mondo, anche se a tratti è davvero impossibile crederlo. 
Credo che sorridere a chi mendica fuori dal supermercato alla vigilia di Natale sia altrettanto importante che dargli il mio resto. 
Credo che tutti siamo umani, anche se molti se ne vergognano. 
Credo che anche se siamo tutti uguali, siamo tutti diversi. E non c'è bisogno di fare classifiche di perfezione. Credo che basti accettare.
Credo nelle tradizioni, e amo che siano diverse. 
Credo che posso smettere di lottare, e semplicemente godere di quello che accade. E godere nel vedere che anche gli altri godono della resa, a Natale.

Ma forse tutte queste cose in cui credo non bastano, e questa insufficienza mi fa odiare i film natalizi. 
E non è che ho bisogno di credere in altro. Ho bisogno di sapere. 
Sapere che quello che abbiamo e condividiamo lo potremmo perdere, inclusa la nostra umanità. Devo sapere che ogni giorno devo lottare per conservare lo stupore e la vulnerabilità del Natale, per evitare di smettere di credere a ciò quello in cui credo a Natale. 
Credere non è un dono. Credere è una scelta. Credere è scegliere di stare vicini alla propria vulnerabilità, che ci rende fortissimi. 
Quindi, scelgo di credere al Natale, nonostante il Natale. E nonostante i film di Natale. 


venerdì 20 dicembre 2013

Ho idee che non condivido/3

Negli ultimi anni mi sono avvicinata al buddismo.
E' un modo di vedere il mondo che mi piace, perché dice che sebbene tutto quello che vediamo e facciamo è in ultima analisi destinato a finire, foriero di dolore e inconsistente (impermanenza, sofferenza e non sè sono i tre segni dell'esistenza) dice anche che non sei buddista se non pratichi la meditazione, ovvero una via pratica e sperimentale per liberarsi da questi tre marchi atavici che ci portiamo addosso, che il mondo si porta addosso, per il semplice fatto di esistere.
Questo significa prendersi la responsabilità delle mie azioni. Se medito, o se agisco in maniera meditativa (che non significa pensando, ma consapevolmente, in piena presenza) getto semi positivi per il mio karma. Se non lo faccio, negativi.
Perfetto. Fin qui tutto bene.
Ma.
Ma questa visione del mondo impiantata sulla mia radice cattolica piena di sensi di colpa, e fomentata da un atavico senso di essere sbagliata e pure da cattivi maestri, ha fatto in modo che mi convincessi che "fosse sempre colpa mia".
Ecco, no.
Non è vero. Non è sempre colpa mia. Posso fare meglio, ma non posso fare meglio anche al posto degli altri. Non posso farmi massacrare perché io devo imparare a ricevere i colpi. Non posso davvero credere che gli altri non abbiano responsabilità. Si finisce al manicomio così. O si diventa delle prede facili, e delle persone sconfitte. E si resta per sempre bambini (nel senso negativo di questa fantastica condizione)
Perché solo un bambino può credere che sia sempre colpa (o merito) suo, come se l'universo girasse attorno a sé.
Se gli altri sono stronzi, da praticante buddhista posso provare compassione per i loro atti, ma sicuramente non è colpa mia. Non è vero che me lo merito. E se sono felici, non è merito mio. Non è solo merito mio.Non restare attaccati a nulla, questo mi dice il buddismo. Godere finché c'è, ed essere pronta a lasciare andare. Soffrire il necessario, osservare il dolore, ma astenersi dal riaprire le ferite e lasciarsele riparire. Provarci, sedersi in meditazione e accettare ciò che c'è, ma non sforzarsi. Praticare la gentilezza amorevole e l'equanimità, non la stolta presunzione di essere ovunque, di comandare il mondo, nel bene e nel male.
E io lo sapevo, una parte sana di me l'ha sempre saputo.
NON E' SEMPRE COLPA MIA.


giovedì 19 dicembre 2013

Ho idee che non condivido /2

L'altro giorno un mio amico mi ha mandato questo video.
La prima reazione è stata commuovermi. Poi ho iniziato a dirmi che il video faceva schifo. Che era una cazzata, troppo romantico e sdolcinato e che quei due erano due sfigati illusi.
Ora: ho passato almeno almeno l'ultimo anno e mezzo a riflettere sull'amore, e a leggere sull'amore.
Ho imparato molte cose, ma ad un certo punto mi sono fatta prendere la mano, ed ho iniziato ad affermare che l'amore romantico non esiste. L'amore tra due persone, che si dimostrano amore, passione, tenerezza, e che vogliono stare insieme, avete presente? Ecco, niente, per me era diventato una cazzata, una sovrastruttura imposta dall'ordine borghese per evitare che ci si diverta troppo facendo orge, o una subdula costruzione mentale ordita dai Sette Savi di Sion per non renderci conto di quanto siamo schiavi e costringerci in una vita a due.
Quindi ho agito di conseguenza, anche all'interno di relazioni. Fredda, cinica, ironica, autocensoria. Per poi struggermi quando le cose finivano.
Ora: questa idea non la condivido. Non l'ho mai condivisa, è ancora peggio.
Sono consapevole che abbia basi fondate: non puoi amare qualcuno e dire: fanculo a tutto il resto, siamo solo io e il mio amore; è vero che l'amore nasce da basi biologiche e ormonali; si può vivere anche se un amore finisce; ci piace crogiolarci nel dolore d'amor perduto; le principesse delle favole hanno ci hanno mangiato il cervello da ragazzine e ora cerchiamo un inesistente principe azzurro; l'amore finto, che diventa zuccheroso è orribile a vedersi quanto a viversi. Ma se ami qualcuno, lo sai, e basta viverlo.
Ed invece: una parte di me andava verso l'istinto di tenerezza, passione, conforto, scambio, aiuto, comprensione, celebrazione, gioia, vita, progetti, sfanculate, paci, biscotti a letto, che è l'amore, e io la sopprimevo, perché l'amore non è un'idea figa e intellettualmente lineare.
Ma pensa te. Ci vuol del genio (mal indirizzato) per essere così stupidi.


martedì 17 dicembre 2013

Ho idee che non condivido/1

Don't believe everything you think
Una persona mi ha recentemente detto "Se dovessi parlare a qualcuno di te gli direi di non credere a tutto quello che dici". Non ho mica capito subito che cosa volesse dire. Perché non sono una bugiarda patentata, anche se qualche bugia l'ho detta e la dico.
Ma ora credo di aver capito: credo intendesse dire che mi convinco da sola di alcune cose, mi persuado che debbano essere come le penso, e anche se sono in disaccordo, mi ci attacco e mi comporto come se davvero ci credessi. Sarà che ho bisogno di qualcosa in cui credere, e allora mi costruisco da sola quello che mi sembra giusto, o forse figo, intellettualmente figo e lineare e in linea con un certo personaggio che voglio creare.
Ecco: questa nuova rubrica vuole smantellare e rendere pubbliche le cose in cui mi sono convinta di credere, ma solo per posa. Perché life is always bigger, e questo lo credo davvero, ma faccio fatica a vivere di conseguenza.

Prima decostruzione.
Ogni volta che c'è il sole e non sono di cattivo umore mi ricordo di questa frase di una canzone di Morgan ai tempi dei Bluvertigo:
Oltre al patimento di ascoltare parlare la gente che si dice 
contenta, persuasa, convinta che sia bella la vita 

col sole nel cielo d'estate 
E mi convinco che è intellettualmente disonesto essere felici in una giornata di sole, come oggi a Boston, UK, dove ovviamente non è estate ma c'era un bellissimo e tiepido solo.
Il sole mi rende più felice di una giornata di pioggia? Sì. Il sole d'estate al mare mi rende felicissima? Sì. Quindi posso mollare la posa di voler essere infelice nonostante il sole perché il mondo fa schifo e la vita non ha senso e rallegrarsi solo perché sorge il sole è troppo borghese? Sì, posso. E la mollo, orasubbito!



lunedì 16 dicembre 2013

Dell'inutilità delle maiuscole o del (non) dirmi cristiana

Sono andata a due Christmas services nell'ultima settimana.
Uno nella locale chiesa metodista, tenuto da Salvation Army, l'altro in una chiesa anglicana.
A parte la felicità dei pastori nel vedere le chiese piene, il freddo e Come all ye faithfull cantata da me in latino (con rischio di essere bruciata in quanto bloody Catholic, che è uno dei miei mille soprannomi according to my landlord), e a parte l'interesse antropo-sociologico, non ho potuto che riflettere, ulteriormente, sulla mia appartenenza religiosa.
Non posso non dirmi cristiana. Ma detesto non potermi dire totalmente non cristiana.
Le canzoni di Natale mi commuovono. Forse andrò persino alla messa di mezzanotte, se il vin brulé non avrà la meglio. Capisco il senso e l'esigenza di riti comunitari. Se avessi o avrò figli probabilmente li farei battezzare, anche se poi gli confonderei tremendamente le idee. Le parole dei Vangeli, ma anche qualcosa della Bibbia, mi risuonano dentro. Ecco, scrivo pure vangeli e bibbia con la maiuscola, automaticamente. E non solo per una questione grammaticale. Non riesco a considerarli libri come tutti gli altri.
Gesù Cristo era un grande uomo. E mica serve che lo dica io. Magari era solo un simbolo di un grande uomo, magari era la rappresentazione mediorientale dell'ancora più orientale Siddhartha Shakyamuni, aka Buddha, che comparando le due storie è palese che siano molto molto simili.
Ma non riesco a credere che Gesù sia stato mandato da Dio/dio che sta nell'alto dei Cieli/cieli perché si incarnasse sulla Terra/terra e ci redimesse dai peccati.
Posso tranquillamente credere che Gesù fosse un essere umano talmente grande, talmente sovra-umano, da diventare dio. O meglio, credo, e spero, che Gesù abbia allargato la sua anima tanto da lasciarsi invadere da dio.
E nemmeno posso credere nella transustatazione, ovvero che l'ostia e il vino, consacrati, divengano realmente, e intendo REALMENTE, il corpo e il sangue di Cristo. Posso accettarli come simbolo di comunione, appunto. Con le persone, con il famoso prossimo, ovvero anche con il vicino di casa con cui non parlo da anni ma con cui condivido lo stesso pane ovvero la stessa umanità e al contempo divinità. E quella comunione dovrebbe portarmi a non odiarlo più. Ma non mi pare che le cose vadano così.
E certamente non posso credere che Gesù, per conservarsi santo e puro, sia nato da una vergine. E' una concezione maschilista e sessuofoba. Tutto è santo, the world is holy.
Non riesco ad accettare di credere che il cristianesimo sia LA religione, dando per scontato che le altre religioni siano una fandonia. Lo sono tutte, e non lo è nessuna. Rispondono tutte a bisogni profondissimi di ogni uomo, ma credo diano risposte immature e semplicistiche. E credo che l'applicazione di queste risposte immature e semplicistiche sia in fondo alla base della nostra personalità/civiltà spesso immatura e semplicistica. Soprattutto le cosiddette "religioni del libro", non mi sembrano per nulla efficaci nel creare una società migliore, pacifica e giusta. Erano meglio gli antichi Romani con il loro accogliente politeismo, o Ashoka, imperatore buddhista da noi davvero troppo poco conosciuto.
Le religioni organizzate dovrebbero, a mio parere, limitarsi a mostrare un esempio di vita spirituale e di amore, e insegnarci a porci le giuste domande e coltivare le giuste pratiche per indagare noi stessi, il mondo e Dio, anzi, dio. E per giuste non intendo Giuste, intendo efficaci, utili, sensate ovvero piene di senso e umanità. Invece noi cerchiamo risposte, non capendo che dio si trova maggiormente a proprio agio nelle domande.
Del resto le ultime parole di Gesù in croce sono state "Dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato?". Mica un'enciclica...



martedì 10 dicembre 2013

Ma non per te solo

A te che mi chiedi la mia attenzione.
Sappi che non l'avrai.
Ho imparato a dare gratis. A non aspettarmi niente. Ed è liberante. Ho imparato ad amare senza volere niente in cambio. Ed è liberante.
Ma ho anche imparato ad amare me stessa (che poi era parte integrante del pacchetto Love for dummies).
Ho imparato a non aspettarmi di essere amata perché ti lascio fare ciò vuoi, come un cucciolo di cane non educato, e nemmeno perché io faccio quello che vuoi tu, come un cucciolo di cane educato.
Ho imparato, anche, a non essere più un campo di battaglia, dove vieni a sconfiggere te stesso. Dove vieni a darti battaglia, per sentirti forte lasciandomi piena dei tuoi cadaveri. Che l'unica perdente ero io, come nelle guerre medioevali, dove chi perdeva erano solo gli abitanti dei villaggi nei cui dintorni si combatteva. Mutilati, rapiti, stuprati e defraudati. Cambiava padrone, ma sempre schiavi rimanevano.
Ecco, io ho imparato. Non sono più schiava.
Ho imparato dove sta il confine tra tenerezza e pietà. Affetto e amore. E sta esattamente nel punto in cui io sto bene da sola, in cui tu stai bene da solo. In cui io sono perfetta come sono, e tu sei perfetto come sei. Altrimenti è sindrome del buon samaritano, autolesionismo, narcisismo della bontà. Schiavitù, di nuovo.
Ho imparato che gli sciacalli affamati di vittoria sulle prede moribonde vanno evitati. E se insistono a cacciarmi, ho imparato pure a sparargli. Ho imparato a non prendermi le rivincite. Che l'unica rivincita è amare di più. E' dire la verità più forte. E' essere più onesta.
Ho imparato che a fare male posso fare del bene. A me. E magari pure a te. Che mica ti odio, ma nemmeno fingo più di credere che mi ami. Ti auguro del bene, me ne auguri. Ma non sarò io la tua felicità. Non sei tu la mia.
Quando avrai mangiato fino all'ultimo boccone del tuo ego, e l'avrai digerito, allora finalmente potrò  parlare con te, e non con le tue mille facciate costruite ad arte. Non accadrà prima, non un secondo prima.
Non ti sarò concesso entrare nella mia camera segreta, nemmeno per un secondo. Fino ad allora puoi sbirciare se vuoi, non mi interessa. Non mi nascondo, è abbastanza evidente. Scrivo qui. Come potrei nascondermi. Ho scelto di non nascondermi. r
Ma non entrerai.
Che io il viaggio fin qui l'ho fatto da sola. E che fatica. E che soddisfazione. Tu non c'eri. Perché io non ero abbastanza. E avevi ragione. Non lo ero.
Ora però fatti un viaggio da solo. Ti auguro di trovarti al di là. Così forse potrò ritrovarti. Che in fondo per un bel po' il mio cuore ha riposato nel tuo, e il tuo nel mio. Ed è stato bellissimo. E la connessione è per sempre. Irrevocabile, come le decisioni papali (prima di Papa Francesco).
Ma se anche non ti ritroverò mai, un grazie te lo riconosco.
Mi hai messo qui. In questa vita. E questa vita ora è mia. Nessun obbligo, nessun dovere.
Solo il piacere di amare, solo il piacere di scoprire, solo il piacere di fare fatica. Ma per me. Mica per te. Per chi amo. Mica per te. Per chi mi ama. Mica per te. Per tutto l'universo. Ma non per te. Non per te solo.
Ce ne sarà un altro, o forse no, ma credo di sì, per cui dirò: solo per te. Ma saprò che non è vero. Perché se ami, ami tutti. Solo in forme diverse. Ma farò finta che sia vero. E sarà vero.


PS: a chiunque si riconosca in questo scritto: non sono fatti che mi riguardano. "Medico, cura te stesso".

lunedì 9 dicembre 2013

I pretend to be happy cause I pretend to be happy. Per favore non prendetemi sul serio.

Forse l'unico modo per essere felici è far finta di esserlo. Nel senso: se guardi la realtà ultima delle cose, la totale mancanza di senso della vita, non c'è un cazzo per cui essere felice.
Ma questa tabula rasa di senso diventa piena di possibilità nel momento in cui il vuoto è percepito come potenzialità di costruire e non come assenza di qualcosa.
Allora fai finta che ci sia un senso, e che si possa essere felice. E forse in un universo parallelo, più alto, la felicità esiste davvero.
E se fai finta davvero, come nel recitare per davvero (come imparai nelle lezioni di recitazione che in questo momento mi sembrano migliaia di migliaia di anni luce lontane nel tempo e nello spazio) tocchi la verità delle cose.
Fingi di essere felice e finisci per esserlo, perché indaghi, esplori e tocchi la felicità. Non ti fa più paura e te ne lasci invadere (attenzione, fare questo con altre emozioni può essere pericoloso, vedi quello che raccontano su  Heath Ledger e Joker)
Ma per "fare finta che" (del resto il gioco preferito dei bambini, e di quanto ami i giochi e i bambini ho scritto e detto molto) o recitare per bene servono energie. Altrimenti mi sgamano da lontano un miglio che sto solo facendo finta. E mi intristisco da sola a fingermi felice. 
Allora ho deciso che per un weekend non avrei fatto finta di essere felice. E mi sarei ricaricata, riempita (che mi sentivo asciutta come il Serio ad agosto) e avrei pianto se avrei voluto piangere e non avrei rotto i coglioni a nessuno con la mia misery, che potrebbe trasformarmi anche nella protagonista di Misery non deve morire, ovvero tenere qualcuno ad ascoltarmi sotto minaccia di morte. 
E come ne sono uscita?
Così. Ho una lista di cose a cui pensare e per cui stressarmi che levati. 
Ma: c'è speranza. C'è speranza che possa essere ancora felice, che possa avere le energie to pretend to be happy (in entrambi i sensi).
Perché ho l'ironia. So perfettamente che sono una noia mortale e mi prendo per il culo, e amo quando mi prendono per il culo per essere una noia mortale. E provo a giocare, di nuovo. Con le parole, con le cose, con le emozioni, con il passato e con il futuro. A giocare con il massimo rispetto possibile. Sapendo che non c'è senso, ma creandolo ex nihilo. 






domenica 8 dicembre 2013

Dammi tre parole.

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Grazie. Detto gratis e di default.
Uffa. Solo quando serve. E allora serve proprio dirlo, anche meno gentilmente. 
Lovoglio. Quando non ne posso proprio fare a meno. E tutto attaccato per darmi la spinta. E arrivarci preparata.



venerdì 6 dicembre 2013

Se niente importa

C’è una sola cosa che si scrive solo per se stessi, ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comperare, e quando hai comperato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno. Umberto Eco

Come funziona la mia anima?
E' l'unica cosa che mi importa sapere nella mia vita. Come funziona la mia anima.
Così scoprirò un po' di più anche come funziona la tua, la vostra.
Non mi interessa altro.
E scoprendolo, man mano la riparo, la faccio tornare integra. E facendola tornare integra provo a rimettere insieme l'universo intero. Perché io e lui, l'universo, quindi io e te, siamo la stessa cosa.
La stessa cosa.
Se io non mi importo, niente importa. Se niente importa, l'universo scompare.



mercoledì 4 dicembre 2013

Le conseguenze di una pasta al ragù (ovvero dell'amore)

Le conseguenze dell'amore sono imprevedibili.
Nessuno giocherebbe con passione una partita a calcio se sapesse nei dettagli che cosa succederà (per questo il calcioscommesse sta uccidendo uno sport di cui non mi frega niente ma che trovo molto bello, soprattutto se visto allo stadio).
Oggi parlavo in chat con P., il mio ex fidanzato/fidanzatino/best friend with benefit (non so come definirlo perché non ci siamo mai detti che cosa eravamo). Quello venuto dopo il grande amore di cui ho parlato molte molte volte qui.
E gli ho detto "Per favore, se hai letto o leggerai il mio blog non rimanerci male. Perché a te ho voluto bene, ti voglio bene, posso persino dire senza mentire che ti amo, ma a mollare la presa e ad invitarti a mollarla, proprio non ce l'ho fatta. E l'altra sera piangevo anche per quello, perché non ce la faccio".
E lui mi ha detto che non mi legge più, perché non vuole essere coinvolto in questa condivisione di sentimenti da web 2.0.
E prima di aver scritto il post di ieri, dissi al mio perduto amor, che mi cercò in skype e vorrei coccolarlo e menarlo fortissimo allo stesso tempo, che avrei scritto qualcosa su La vie d'Adèle che tanto mi aveva fatto piangere, mentre avevo in testa la faccia e le mani sue.
E capisco la reazione di P., e mi chiedo perché scrivo questo blog. E per chi.
E credo di scriverlo perché ho scelto un commitment di onestà, scavo, rielaborazione, che devo a Nietzsche, e scrivere che lo devo a un pazzo genio filosofo fa ridere fortissimo. Scrivo questo blog perché sto meglio se scrivo. Perché voglio condividere qualcosa, che mi sembra che sia il senso della vita, condividere. Però poi mi chiedo se posso condividere anche la vita degli altri, se posso fare del male (è successo) tramite questo strumento. Se è vero che mi schermo, che lo uso come uno scudo e a volte come un'arma. Mi chiedo se scrivo questo blog perché sono totalmente egoriferita e perché l'analisi mi ha abituato a spezzettare tutto, e penso che queste due risposte siano molto molto plausibili.
E penso che non dovrei scriverlo più questo blog, ma dovrei imbottigliare ciò che sento e sottoporlo a una più intensa trasformazione al fine da rendere meno immediata la mia vita, e provare a fare qualcosa di più lungo, meditato, rielaborato di quattro parole a volte messe decisamente a caso.
E alla fine mi ricordo che le conseguenze dell'amore sono imprevedibili.
La vita vera è cucinare e poi mangiare la pasta al ragù al sesto piano di un appartamento di Manchester. La vita mediata è scrivere di questo. La vita ancor più mediata è leggere gente che mi dice "grazie, mi hai emozionato". Ma è vita vera anche questa, quella mediata. Anche Adèle non è vera, ma mi ha emozionato davvero. La vita vera è avere un virus intestinale dopo aver mangiato la pasta al ragù al sesto piano di un appartamento di Manchester.
La vita vera è quando smetti di chiederti quali sono le conseguenze dell'amore. E capisci che le conseguenze dell'amore sono tutto ciò che ti circonda, tutto ciò che sei.
La conseguenza dell'amore è l'universo intero.

martedì 3 dicembre 2013

Una pasta al ragù al sesto piano di un palazzo di Manchester.


Mourning, as we know, however painful it may be comes to a spontaneous end.When it has renounced everything that has been lost, then it has consumed itself, and our libido is once more free (in so far as we are still young and active) to replace the lost objects by fresh ones equally or still more precious. Sigmund Freud, On Transience 

Sono andata a Manchester nel fine settimana. Alla fine di una settimana in cui sono stata mangiata viva dalla nostalgia di casa, e dalla stanchezza, e da un certo senso di inutilità.
Inizio ad entrare nella fase centrale del mio assistentato in UK. La fase iniziale di totale novità è passata, il mio inglese non ha più un progresso così veloce, molte delle cose che volevo fare qui non si stanno concretizzando.
Mi mancano gli amici. Mi manca l'amore.
A Manchester mi ospita un amico francese, che sta al sesto piano di un palazzo che affaccia su dei palazzi come quelli brutti che a me piacciono tanto della periferia di Milano. E a me un po' piace lui, e anche io a lui. E c'è anche un altro amico, dal Belgio. E anche noi ci piacciamo, ma in un altro modo. E sono felice di essere lì. In una città. Bella, decadente, forte. Una città. Con loro che mi prendono in giro perché mi dicono che mi portano nel quartiere hipster così mi sento a casa. E io che chiedo al belga se il Belgio esiste davvero, e al francese dico che ha un accento un po' scemo e un po' sexy.
E a Manchester vado a vedere Blue is the warmest colour, ovvero La vie d'Adèle, ovvero La vita d'Adele. Perché il francese ama Adèle, e io sono persino un po' invidiosa. E prima di entrare ci facciamo le foto che sembriamo Jules e Jim, io che guardo uno, e poi guardo l'altro. E c'era una luce rossa e i riflessi delle coppie che parlavano piano nella caffetteria del cinema. E la vita fuori. E io che respiro e sospiro la città.
E sulla poltroncina del cinema piango per un'ora e mezza, e un'altra mezz'ora dopo. E piango perché rivedo me stessa dentro lo schermo, e pazienza se il mio era l'amore per un uomo e non per una donna. Era l'amore.
E piango, perché dopo quello sguardo ad una festa di Carnevale, io non mi sono più sentita predestinata per nessuno. Non l'ho più concesso a nessuno.
Piango per riempire il vuoto che ho dentro. Immenso, divorante,  una dannazione.
Piango perché Adèle ha perso l'innocenza, come me.
Piango perché il mio amore, come il suo, mi diceva che non ero abbastanza.
Piango perché lei, come me, ha tradito il suo amore.
Piango perché mi vedo agire nel mondo e mi vedo lavorare con la tabella del dare e dell'avere in mano, e mi faccio vomitare.
Piango perché vorrei abbandono. E produco solo sforzo.
Piango per la miseria di chi non ha amato mai. E per la fatica di chi vuole amare sempre.
E amo ogni immagine di Adèle, sporca, sudata, spettinata, vorace (pronunciato in francese però, è più bello). La vedo mangiare ed è meraviglioso. Mangia Adèle, ed è felice. Piange, e quando piange le se inonda la faccia, come a me. Ha il moccolo al naso e singhiozza. Come me.
Elle est perdue. She's lost. È perduta Adèle. Ma è forte. Ed ama la vita. Si impegna, cammina decisa, si mette il vestito blu, si guarda allo specchio con paura, ma va dove deve andare. E quando arriva saluta tutti, e beve il vino e io che la guardo mi chiedo: ma come fanno a non vedere che è rotta? Sta sanguinando, povera Adèle.
Io anche sto sanguinando. E mentre sanguino e divento debole, prima sulla poltroncina del cinema e poi nell'aria fredda di Manchester, mi sembra che tutto prenda un senso, una posizione in un puzzle che al momento non riesco a completare, ma vedo il disegno generale.
E allora andiamo, io e i miei due amici, a fare la spesa. Ero già la cuoca designata, in quanto femmina ed italiana. E allora anche se sono vegetariana decido di cucinare la pasta al ragù, la stessa che Adèle mangia con i suoi genitori, e che cucina per gli amici di Emma, ma per Emma, mica per loro. E per se stessa, per il suo amore cucina. Perché le fa bene al cuore cucinare per il suo amore.
E la pasta al ragù mi piace un sacco, e quando mia mamma cucinava il ragù ero felice. Ed ho imparato a farlo bene, e anche se sono vegetariana voglio mangiare la pasta al ragù come Adèle. Voglio mangiare la pasta al ragù al sesto piano di un palazzo di Manchester con il mio amico belga e il mio amico francese, che si chiama Max ed è triste pure lui. Il belga no, è felice, lui ha la sua birra. Sembra sempre così sereno lui.
E allora ecco, cucino la pasta al ragù, con calma. In un appartamento al sesto piano di un palazzo di Manchester.
Bevo il vino rosso intanto. E ascolto la musica che i miei amici scelgono. Musica africana, e I follow river, che balliamo un po'. Ma Adèle la ballava meglio nel film.
E penso ai miei amici che stanno altrove, non lì nell'appartamento al sesto piano di un palazzo di Manchester, e decido che proverò a raccontare a loro questo momento. Che lo so che sto semplicemente cucinando una pasta al ragù al sesto piano di un palazzo di Manchester, ma c'è una vita che sta andando apposto lì dentro. E li vorrei lì, e cucinerei una pasta al ragù gigante, anche se ho solo delle pentole piccolissime, nell'appartamento al sesto piano di un palazzo di Manchester.
E poi ogni tanto sento le lacrime in fondo alla gola, allora mi rollo una sigaretta. E leggo On Transience di Freud, che Thomas ha con sé, chissà poi perché. Ma anche Freud è un altro pezzo di qualcosa che si sistema, facendosi spazio, facendomi male. E poi parliamo del fatto che tutto passi e mi chiedono di farli meditare e io dico, ok.
E poi metto in tavola la pasta. Metto la pasta in tavola in una casa da studenti al sesto piano di un palazzo di Manchester. Per me, e un amico belga e un amico francese.
E allora mi accorgo che stiamo facendo una cosa. L'unica cosa sensata da fare. We are sharing love.
E benedico tutte le mie lacrime, e quelle di Adèle, e quelle di Max che non vedo, e quelle del mio amore, e quelle di chi avrei voluto amare ma non ce l'ho fatta, e quelle di chi mi avrebbe voluto amare ma non ce l'ha fatta. E le mie.
E mangiamo la pasta al ragù. Fine della storia.