mercoledì 23 dicembre 2015

Fiumi.

A volte fai il morto e galleggi.
A volte ti rilassi faticando in lunghe e calme bracciate.
A volte ti siedi sulla riva e lo guardi scorrere. Ti guardi scorrere
A volte ti siedi sulla riva, chiudi gli occhi e ne ascolti solamente il rumore. Il tuo rumore.
A volte ti tuffi, poi ti agiti, bevi, tossisci e temi di affogare.
A volte puoi solo assecondare la corrente.
A volte ti accorgi che cambia il panorama.
A volte è in secca, e fai schizzare le pozzanghere, indispettito.
A volte è riparo dal caldo, altre riparo dal freddo.
A volte ti gela le ossa, altre è tiepido come il brodo per un risotto.
A volte esonda, e rende fertile la terra.
A volte rompe gli argini che lo costringono e ti affascina il suo potere distruttivo.
A tratti limpidissimo, a tratti inquinato.
Ha un inizio e una fine, ma da dove vengano e dove vadano le sue gocce, non lo saprai mai
In certi punti incontra altri fiumi, le cui acque si mescolano poco a poco.
In altri punti crea rami morti, che poi morti non sono, sono piccole paludi piene di rane, uccelli, canne,  libellule.
Un giorno ti inghiottirà e tu penserai di non essere più.
Ma sarai qualcosa che non sai.


sabato 19 dicembre 2015

Incredibilmente anche mia madre è un essere umano

Lei 70 anni, io 35.
Lei la quarta, io la prima.
Lei concreta, io aerea.
Lei organizzatrice, io pure.
Lei nonna, io zia.
Lei solida all'apparenza, fragile dentro. Io fragile all'apparenza, un'inaspettata resilienza dentro.
Lei cattolica, io bho.
Lei non aveva dubbi, mi pareva. Io glieli ho fatti venire, mi pare.
Lei conosce le regole e le accetta, io le conosco e ci sbatto la testa.
Lei bionda ancora naturale, io tinta da 10 anni per coprire i capelli bianchi.
Lei con un gran gusto e un grande armadio, io pure, soprattutto il secondo.
Lei non capisce le pubblicità, io gliele spiego.
Lei non ha senso dell'ironia, io la prendo in giro continuamente.
Lei indipendente, in un mondo che forse gliel'ha impedito. Io indipendente, ma non so bene che farmene dell'indipendenza.
Lei accusata, io giudice.
Lei giudice, io accusata.
Lei che controlla ogni cosa, io che farei lo stesso, ma mi sforzo di non assomigliarle troppo.

Penso di conoscerla, eppure so che non so niente di lei. Me la immagino diversa, se solo nella sua vita fossero accadute altre cose. Un lancio di moneta e la vita può cambiare. Che ne so, un fidanzato hippy invece di mio padre, del resto era la fine degli anni '60. Mi immagino quali lati del suo carattere si sarebbero rafforzati, quali ammorbiditi, quali scatenati. Mi viene da ridere pensandoci, Ivonne figlia dei fiori. O attivista femminista. O architetto O giornalista. O contadina. O infermiera.
Non è possibile, lei non ha una vita sua, non avrebbe potuto avere un'altra vita che questa. E' un privilegio che non posso riconoscerle. Lei è mia madre, che cosa vorrebbe essere oltre a questo? Casualmente è anche madre di due mie sorelle, ma lei è indiscutibilmente mia madre. La conosco e la riconosco per questo. E' quasi disgustoso questo annullamento di lei come essere umano, non posso davvero essere così meschina, così piccola, così egoista. Riprovo, perché so che da qualche parte non può essere solo quello.
Temo di non amarla più, se non fosse mia madre. Ma riprovo, chiudo gli occhi e mi immagino di incontrarla sotto i portici di RdL, in un giorno in cui ride e gli occhi verdi le scintillano. E magari di sentirla giocare con i suoi nipoti. La immagino a curare le piante. Immagino la sua voce alzarsi quando si arrabbia, e le lacrime sul suo viso incredibilmente senza rughe. Immagino che sgridi suo marito perché si è sporcato la cravatta mangiando. La immagino pregare chiedendo benessere per chi le sta nel cuore. La immagino cercare le parole che non sa dire. La immagino cercare qualcosa che nemmeno lei sa che cosa sia. La immagino accettare quello che ha. La immagino mentre piega i maglioni in pile incredibilmente ordinate. La immagino accorgersi che qualcosa è fuori posto. La immagino 17enne in vacanza all'Elba. La immagino il giorno del suo matrimonio. La immagino come se io non esistessi.
E mi accorgo che esiste, non è mia mamma. E' Ivonne. Un po' estranea, finalmente. Un po' libera da me. E io un po' libera da lei.


lunedì 14 dicembre 2015

Less is more (love)

Hanno scoperto una nuova stella,ma non vuol dire che vi sia più lucee qualcosa che prima mancava.Wisława Szymborska


Io non so correre.
Cioè, anche sì, quando stavo a Boston UK correvo correvo e correvo e facevo pure dei buoni tempi. Ora a Milano non corro perché mi si perforano i polmoni, l'odore di smog mi entra nel naso anche se corro al parco e sto male.
Però Milano mi spinge a correre. Non mi riferisco al correre nel senso mettere un piede dopo l'altro più velocemente che nella camminata (sebbene anche quello c'entri). Mi riferisco a procedere veloce, di fretta, precipitarmi, accumulare.
Di più di più di più.
Più efficienza, più produttività, più competitività, più PIL, più storie, più successo, più match (di Tinder), più lavoro, più ragioni inoppugnabili, più serate, più drink, più benessere, più muscoli, più relax, più biodinamico, più voti, più puntualità, più amici, più stimoli, più sicurezza, più solidarietà.
Di più.
Ma c'è già tutto quello che serve, sempre.  Basta fermarsi. E scoprire che invece di accumulare si può curare. Le relazioni, i posti, le cose, i lavori. Curarle, averne cura, e magari anche guarirle se ne hanno bisogno.
Mi serve la cura. Posso dare quello. Non so dare altro. E se corro, non curo niente.
E' bello correre ogni tanto, fa bene, l'aria sulla faccia, il sudore nei capelli, la soddisfazione di aver fatto più kilometri, più cose, più incontri.
Però io non voglio correre, sempre, fermarmi solo per riprendere fiato, stremata, tra una corsa e l'altra. Forse sarei morta nella giungla dei nostri antichi progenitori. Ma ora per sospendo la corsa. Cammino, ma sto anche ferma immobile. E curo. Perché più cura significa meno. Meno obiettivi, meno performanza, meno bisogni, meno marchette, meno clacson, meno aspettative, meno schermi (reali o interiori).
Perché meno è l'unico modo per avere le uniche cose che realmente cerchiamo correndo. Più amore e più verità.



giovedì 3 dicembre 2015

It makes sense

Il perdono non è una cosa da deboli.
Riuscire a perdonare significa lasciare che qualcosa ci squarci a metà, noi e tutte le nostre convinzioni sul giusto e lo sbagliato.
E' accettare completamente l'imperfetta umanità dell'altro, che è uguale, sebben diversa, alla mia imperfetta umanità.
Ma io che voglio essere perfetta, come faccio a perdonare?
Meglio prendere un'armatura da cavaliere, vuota, ed infilarmici dentro. E accoccolarmici, e immaginarla comoda come un piumone caldo, mentre mi sforzo di non sentire le ossa che mi picchiano ovunque, il respiro che si accorcia, la fatica nel muovermi, il senso di oppressione e gli sguardi stupiti di chi mi vede passeggiare per Milano con indosso un'armatura.
In effetti è molto più sensato.
Perdonare è da deboli. E io sono forte.