domenica 26 maggio 2013

Il mirino alcolico

Adesso mi faccio la doccia e finalmente esco nel sole con la bici, destinazioni e compagni vari e variabili.
Al calar del sole lavorerò e recupererò il malefico sonno arretrato.
Perché ieri sera sono uscita, ho fatto tardi e mi sono un po', non tanto, sbronzata. E quando mi sbronzo non riesco a dormire, quindi sono sveglia dalle 10. E da allora, oltre a lavorare e chiacchierare, ho soprattutto osservato le sbronze altrui, leggendoci dentro le mie.
Perché mi piace sbronzarmi? Che cosa cerco nella sbronza? Perché sono triste il giorno dopo, tralasciando l'evidente sconquasso chimico che l'alcool crea nel corpo?
Nonostante la frase letta da qualche parte "Alcohol is bad. Thoughts are worst" sia vera, non credo che cerchiamo l'oblio. Non solo.
Io non più, ma ho usato per un po' l'alcool come anestetico. A volte cerco il divertimento, ma ha poco senso, perché mi so divertire benissimo senza alcool. A volte la disinibizione, per ballare più libera o provarci meglio o sentirmi banalmente più a mio agio. Ma per mesi l'anno scorso ho scelto di non sbronzarmi, e devo ammettere che non ero inibita per niente.
Che cosa cerco quindi?
Secondo me ora forse cerco il fondo della mia anima. No, non il fondo, direi i bassifondi.
Le zone cupe, poco sviluppate, la parte vituperata e vituperabile di me. Ma anche di chi mi sta attorno e del luogo in cui si sta consumando la sbornia.
Forse in realtà tutti cerchiamo sempre quello, per capire fin dove possiamo arrivare, per poter liberare qualcosa di noi che ci imbarazza o impaurisce o non osiamo osservare senza il filtro dell'alcool. Per poter guardare in faccia i nostri mostri, e magari incazzarci un po' con loro, e poi tornare fintamente ammansiti. Ed è per questo che il giorno dopo siamo tristi, perché abbiamo constatato che siamo ancora lì, fermi, con le nostre dinamiche ricorrenti a cui vorremmo sfuggire grazie all'alcool, e che invece incontriamo proprio grazie all'alcool. Ma non riusciamo a disinnescarle.
Perché l'alcool al massimo è un mirino, ma non è l'arma con cui diventeremo migliori.
Io sono diventata migliore grazie al mirino alcolico? Forse sì, anzi sicuramente sì. Nei momenti di sbronza epica ho fatto cose attraverso cui ho visto con millimetrica precisione me stessa, rivelata al massimo grado, con una crudeltà devastante e contemporaneamente un'innocenza quasi insopportabile. E ho visto le miserie degli altri e del mondo. Ma la vera arma, appunto, non era l'alcool, era ed è il parallelo lavoro per aumentare e precisare la consapevolezza. Senza quella, avrei solo fatto cazzate di cui pentirmi o avrei pianto inutili lacrime da sbronza triste o avrei maledetto l'insipienza degli esseri umani e la totale vacuità dell'esistenza. Ho visto anche tutto questo, ma mi sembra di essere andata oltre.
Ieri in questo postaccio in cui non so bene perché sono andata (era la mia seconda uscita seria da due mesi a questa parte, forse per questo, e speravo di ballare buona musica) c'era, tra gli altri esemplari della specie umana, una quarantenne con il top con le stringhe laterali che ballava a cavalcioni di un tipo, e due miei amici erano molesti e pure invadenti e pure con le gambe cedevoli. Ma nonostante tutto ciò ero serena e in pace con il mondo. E stamattina quando V. mi ha detto ripetutamente che ieri sera ho fatto una cosa di cui non mi ricordo per niente (e secondo me non l'ho fatta, ma gli credo, anche se non dovrei perché era tutto storto) è stata abbastanza tranquilla la mia reazione.
In conclusione, non affermo certo di essere arrivata al fondo della mia anima e averla rassettata interamente, ma le grandi pulizie sono certamente state fatte. Forse posso smettere di sbronzarmi. E soprattutto posso darmi una mossa, e uscire nel sole, freddo ma meglio di niente.




martedì 21 maggio 2013

Thinking of the key, each confirms a prison - Una separazione

Datta. Dayadhvam. Damyata.
Non possiamo lasciare che nessuno si avvicini,
troppo intenti come ragni a trattenere incoscienti il segreto
screpolato che ognuno porta.
E non sappiamo cosa sia.
E lo vogliamo sapere.
E non sappiamo cosa sia.
E lo vogliamo sapere.
E non sappiamo cosa sia.
E vogliamo che qualcuno prima di noi lo guardi.
E vogliamo che qualcuno per noi ci rassicuri.
E vogliamo che nessuno osi tanto.
Chiudichiudichiudi. Avvolgiavvolgiavvolgi.
E vogliamo qualcuno da odiare al posto nostro.
Attaccaattaccaattacca. Smettismettismetti.
E non lo vogliamo sapere.
Ma non per colpa sua.
E non sappiamo cosa sia.
Colpe non ne esistono. Settanta volte sette.
In un momento di intensa distrazione
concentrati sul nulla - celebrati nel tutto - dispersi nel lutto
scopriamo il segreto.
E sembra follia, ma è solo vento.
Disintegrato il segreto,
minuscola enormità,
dichiariamo la resa. Ora si può
dare tutto. Avere tutto.
Volere nulla. Potere tutto.
Resta la tela, e un ragno morto,
ora cosciente, a cui sorridere.
Shantih shantih shantih.







venerdì 17 maggio 2013

Bilanci


"Tu dici che ora sono viva. Che sono sempre stata viva"

Stasera ho visto Una specie di Alaska di Harold Pinter, da cui è tratta la citazione qui sopra.
L'opera è ispirata ad un racconto di Oliver Sachs, il neurologo. La protagonista è Debora, una donna di 45 anni che si risveglia dopo 29 anni di coma grazie alle cure di un medico, che le fa iniezioni di dopamina, neurotrasmettitore che regola molte funzioni, tra cui piacere, intenzione, sonno e umore.
Debora crede che la sua vita sia rimasta quella da 16enne in cui si è addormentata. Non capisce perché si trova lì, vuole vedere i suoi genitori e le sue sorelle, ormai ovviamente adulte ma ancora adolescenti per lei.
Debora ha passato 29 anni in una sorta di Alaska: bianco e silenzio.
Una storia lontana da me e da noi? Non direi.
Mi sembra così palese che non serva essere in coma per perdersi nella vita, per finire staccati, alienati. A me è successo.
Di svegliarmi una mattina e non sapere che cosa fosse successo intorno, che cosa fare, che giorno fosse, quanti anni avessi, che lingua parlassi. Sapevo chi ero, ma era una conoscenza inattuale e poco utile, ero persa in un passato che non passava mai, che si arrotolava su se stesso, ero incapace di comunicare, ero tutta dentro la mia testa. Mi ero chiusa al mondo forse per protezione, e non volevo più guardarlo. La mia Alaska era una vita di monotonia, ignavia, banalità, cose perfette per tutti tranne che per me. Il bianco dell'assenza di scelta. Mi ero lasciata indietro. E quando mi sono svegliata, ho temuto di essere incapace di riacciuffarmi. All'inizio in effetti è stato impossibile riprendermi.
La mia dopamina è stato il dolore. Un dolore talmente intenso da impedirmi di continuare a dormire. Un dolore penetrato ovunque, fattosi carne sangue lacrime sudore. Un dolore che ha trasformato il bianco di un nero compatto e insopportabile. Il mio medico probabilmente inconsapevole: il ragazzo che mi ha lasciato per salvarsi lui stesso. L'ho odiato a lungo, ora gliene sono grata.
Era buio fuori, ma ormai ero sveglia. In quel nero una lunga lista di domande come quelle che Debora fa al medico, per rimettermi al pari. Ogni domanda una reazione diversa, dall'ira allo stupore alla paura al senso di colpa. E poiché le domande le ho poste sopratutto a me stessa, le risposte si sono spesso frantumate, o si sono trasformate in una sorta di larsen visivo, come due specchi uno di fronte all'altro, che si rimbalzano continuamente la stessa immagine fino a scomparire in un nero impreciso e mobile.
E ho rischiato di volermi addormentare di nuovo, sommersa dalle domande. Ma ho resistito, a volte forzando, a volte rallentando, a volte chiedendo risposte ad altri che hanno fatto il possibile, e a tratti più del possibile, per rispondermi la cosa giusta al momento giusto. Sbattevo gomiti ginocchi e anche contro questo nero, dentro questo nero in cui anche io perdevo i confini, perdevo l'orientamento. Era l'indistinto. Ma pian piano il nero è diventato sempre meno denso, le pareti più elastiche, gli spazi più ampi. Apparivano dei flash bianchi di stasi, e per tornare al nero avevo bisogno di farmi male di nuovo. Mandavo messaggi di aiuto, spesso sconnessi. Ho fatto un viaggio interstellare nel passato, come in The tree of life.
Infine sono riapparsi i colori. Le sfumature, i dettagli, i mezzi toni, la vita mutevole e non assolutizzata nel bianco o congelata nel nero. E con i colori, la capacità di parlare, di comunicare, di amare, di appassionare e appassionarmi, di ridere, di scegliere. Fare pace con i ricordi, anche quelli che non ho conservato. Fare pace con il tempo, quello andato, quello che verrà e quello presente. Imparare a sbagliare e riderne. A fare bene e fottermene. A fare per il fare. A essere per essere.
Perché Debora alla fine si pacifica, affermando che accetta le versioni del medico e della sorella. Si arrende alla vita, scegliendo di non guardarsi nemmeno allo specchio. Non sa perché è andata così, non capisce come e perché sua sorella possa essere "già" sposata. Non si chiede nemmeno cosa abbia provato la sorella. Decide di affidarsi, andare a casa e aprire i regali che le porteranno per il suo ritorno.
E io mi pacifico, nel mondo che c'è ora, in cui io sto e non cerco (quasi) nulla se non la presenza. Le condizioni non le posso dettare io, e nemmeno Debora lo può fare. Prendere o lasciare. Non c'è altro. Non c'è altro, perché c'è tutto, ora. 

Quindi all'affermazione di Pinter io rispondo che proprio sempre sempre viva no, non lo sono stata, ma ora sì. E che farò di tutto per restare viva, e consapevole di esserlo.


Nella foto: qualcosa per cui non vale la pena stupirsi o chiedersi il perché, visto che non lo scopriremmo mai fino in fondo. Accettare e basta. 

mercoledì 8 maggio 2013

Work hard, play harder

Il male di vivere ha i tratti del dovere di vivere. Il piacere di vivere assomiglia al giocare a vivere.


sabato 4 maggio 2013

Metta!


O buio buio buio. Tutti vanno nel buio,
nei vuoti spazî interstellari, il vuoto va nel vuoto,
i capitani, uomini d’affari, gli eminenti letterati,
i generosi patroni dell’arte, gli uomini di stato e i governanti,
gli esimi funzionari, i presidenti di molti comitati,
i capitani d’industria e i piccoli imprenditori, tutti vanno nel buio
e buio è il Sole, e la Luna, e l’Almanacco di Gotha
e la Gazzetta della Borsa, l’Annuario delle Società Anonime,
e freddo il senso ed è perduto il motivo dell’azione.
E noi tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso,
funerale di nessuno, perché non c’è nessuno da seppellire.
Ho detto alla mia anima: taci, e lascia che il buio scenda su di te,
sarà l’oscurità di Dio. Come in un teatro,
si spengono le luci per poter cambiare la scena
con un cupo rombo d’ali, con un movimento dell’oscurità sul buio,
e noi sappiamo che le colline e gli alberi, il panorama lontano
e l’imponente ardita facciata, tutto, tutto viene arrotolato e messo via –
O come quando un treno della metropolitana si ferma troppo a lungo tra due stazioni
e allora la conversazione cresce, poi un po’ per volta svanisce nel silenzio.
E vedi che dietro ad ogni faccia si spalanca il vuoto mentale
lasciando soltanto il terrore di non avere nulla a cui pensare;
o quando, sotto l’etere, la mente è cosciente, però cosciente di nulla –
Ho detto alla mia anima: resta in silenzio, e attendi senza speranza
perché la speranza sarebbe speranza mal riposta: aspetta senza amore
perché l’amore sarebbe mal riposto; resta la fede
ma la fede e l’amore e la speranza sono tutte nell’attesa.
Attendi senza pensiero, perché tu non sei pronta al pensiero:
cosí l’oscurità sarà luce, e la quiete danza.
Brusío di rapidi ruscelli, e lampi d’inverno.
Il timo selvatico non visto, e la fragola di bosco,
le risa nel giardino, eco di un’estasi
non perduta, ma che richiede, protesa all’agonia
della morte e della nascita.
 Voi dite che io ripeto
qualcosa che ho già detto prima. Lo dirò un’altra volta
dovrò dirlo un’altra volta? Per arrivare là,
per arrivare dove siete voi, per andare via da dove voi non siete,
 dovete passare per una strada dove non c’è estasi.
Per arrivare a ciò che non sapete
 dovete passare per una strada che è la strada dell’ignoranza.
Per possedere ciò che non possedete
 dovete passare per la strada della privazione.
Per arrivare a ciò che non siete
 dovete passare per la strada in cui non siete.
E ciò che non sapete è la sola cosa che sapete
e ciò che avete è ciò che non avete
e dove siete è dove non siete.

T.S. Eliot - East Coker


Metta è un imperativo, ma non è voce del verbo mettere.
Si tratta della gentilezza amorevole non condizionata, una delle virtù buddiste che coltivate fanno "giungere alla riva opposta".
Praticarla è spesso nuotare contro corrente, ma altra strada non c'è, o meglio forse c'è e anzi mi tenta, ma non voglio più percorrere altre strade. Ma del resto anche il concetto di opposizione posso dimenticarlo, se riesco a ricordarmi che "rinunciando all'ego, l'universo diventa io".
Mi hanno detto che sono presuntuosa nel pensare che io sia l'universo, e forse è vero, rispetto al mio stadio di consapevolezza attuale. Ma vorrei giustificarmi dicendo che so che è il destino di tutti, non solo il mio.
Buon viaggio.



Nella foto: Loch (Hole) di Fabian Bürgy