venerdì 17 maggio 2013

Bilanci


"Tu dici che ora sono viva. Che sono sempre stata viva"

Stasera ho visto Una specie di Alaska di Harold Pinter, da cui è tratta la citazione qui sopra.
L'opera è ispirata ad un racconto di Oliver Sachs, il neurologo. La protagonista è Debora, una donna di 45 anni che si risveglia dopo 29 anni di coma grazie alle cure di un medico, che le fa iniezioni di dopamina, neurotrasmettitore che regola molte funzioni, tra cui piacere, intenzione, sonno e umore.
Debora crede che la sua vita sia rimasta quella da 16enne in cui si è addormentata. Non capisce perché si trova lì, vuole vedere i suoi genitori e le sue sorelle, ormai ovviamente adulte ma ancora adolescenti per lei.
Debora ha passato 29 anni in una sorta di Alaska: bianco e silenzio.
Una storia lontana da me e da noi? Non direi.
Mi sembra così palese che non serva essere in coma per perdersi nella vita, per finire staccati, alienati. A me è successo.
Di svegliarmi una mattina e non sapere che cosa fosse successo intorno, che cosa fare, che giorno fosse, quanti anni avessi, che lingua parlassi. Sapevo chi ero, ma era una conoscenza inattuale e poco utile, ero persa in un passato che non passava mai, che si arrotolava su se stesso, ero incapace di comunicare, ero tutta dentro la mia testa. Mi ero chiusa al mondo forse per protezione, e non volevo più guardarlo. La mia Alaska era una vita di monotonia, ignavia, banalità, cose perfette per tutti tranne che per me. Il bianco dell'assenza di scelta. Mi ero lasciata indietro. E quando mi sono svegliata, ho temuto di essere incapace di riacciuffarmi. All'inizio in effetti è stato impossibile riprendermi.
La mia dopamina è stato il dolore. Un dolore talmente intenso da impedirmi di continuare a dormire. Un dolore penetrato ovunque, fattosi carne sangue lacrime sudore. Un dolore che ha trasformato il bianco di un nero compatto e insopportabile. Il mio medico probabilmente inconsapevole: il ragazzo che mi ha lasciato per salvarsi lui stesso. L'ho odiato a lungo, ora gliene sono grata.
Era buio fuori, ma ormai ero sveglia. In quel nero una lunga lista di domande come quelle che Debora fa al medico, per rimettermi al pari. Ogni domanda una reazione diversa, dall'ira allo stupore alla paura al senso di colpa. E poiché le domande le ho poste sopratutto a me stessa, le risposte si sono spesso frantumate, o si sono trasformate in una sorta di larsen visivo, come due specchi uno di fronte all'altro, che si rimbalzano continuamente la stessa immagine fino a scomparire in un nero impreciso e mobile.
E ho rischiato di volermi addormentare di nuovo, sommersa dalle domande. Ma ho resistito, a volte forzando, a volte rallentando, a volte chiedendo risposte ad altri che hanno fatto il possibile, e a tratti più del possibile, per rispondermi la cosa giusta al momento giusto. Sbattevo gomiti ginocchi e anche contro questo nero, dentro questo nero in cui anche io perdevo i confini, perdevo l'orientamento. Era l'indistinto. Ma pian piano il nero è diventato sempre meno denso, le pareti più elastiche, gli spazi più ampi. Apparivano dei flash bianchi di stasi, e per tornare al nero avevo bisogno di farmi male di nuovo. Mandavo messaggi di aiuto, spesso sconnessi. Ho fatto un viaggio interstellare nel passato, come in The tree of life.
Infine sono riapparsi i colori. Le sfumature, i dettagli, i mezzi toni, la vita mutevole e non assolutizzata nel bianco o congelata nel nero. E con i colori, la capacità di parlare, di comunicare, di amare, di appassionare e appassionarmi, di ridere, di scegliere. Fare pace con i ricordi, anche quelli che non ho conservato. Fare pace con il tempo, quello andato, quello che verrà e quello presente. Imparare a sbagliare e riderne. A fare bene e fottermene. A fare per il fare. A essere per essere.
Perché Debora alla fine si pacifica, affermando che accetta le versioni del medico e della sorella. Si arrende alla vita, scegliendo di non guardarsi nemmeno allo specchio. Non sa perché è andata così, non capisce come e perché sua sorella possa essere "già" sposata. Non si chiede nemmeno cosa abbia provato la sorella. Decide di affidarsi, andare a casa e aprire i regali che le porteranno per il suo ritorno.
E io mi pacifico, nel mondo che c'è ora, in cui io sto e non cerco (quasi) nulla se non la presenza. Le condizioni non le posso dettare io, e nemmeno Debora lo può fare. Prendere o lasciare. Non c'è altro. Non c'è altro, perché c'è tutto, ora. 

Quindi all'affermazione di Pinter io rispondo che proprio sempre sempre viva no, non lo sono stata, ma ora sì. E che farò di tutto per restare viva, e consapevole di esserlo.


Nella foto: qualcosa per cui non vale la pena stupirsi o chiedersi il perché, visto che non lo scopriremmo mai fino in fondo. Accettare e basta. 

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