mercoledì 30 aprile 2014

Notturno - Milano Est

Viale Forlanini. Ore 01:00.
Neve a fine aprile, parrebbe.
Invece no. E mi scopro a pensare quanto sarebbe bello fare l'amore trasportati  dal vento che preannuncia un temporale, come i piumini dei pioppi, abbandonati alla saggezza della natura, totalmente inconsapevoli e quindi totalmente presenti.
Poi dei fari mi portano via, e sto di nuovo guidando.

giovedì 24 aprile 2014

Salus per nihilum

L'unico modo che conosco per rimanere sana di mente è sdoppiarmi, triplicarmi, moltiplicarmi.
Guardarmi da fuori, con occhi che non siano i miei, da punti di vista improbabili.
Cercarmi nei sogni, nel respiro, nella sigaretta che fumo, nel caffé, in una coccinella, nell'acqua che mi scende nell'esofago e in quella che scorre nel lavandino.
Vedermi come mi vede mio padre, mia madre, il venditore di rose, un nazista, Renzi, mia sorella, la mia migliore amica, il mio fidanzato, il meccanico e pure un medico, un ubriaco e il cane che passa al parco.
Guardare il mio sguardo che guarda il mondo.

Sono niente, un aggregato di sguardi e sensazioni.
Sono potentissima, in questo niente.


domenica 20 aprile 2014

Esistenzialismo pasquale

"Le Progrès, ce long chemin ardu qui mène jusqu'à moi."
"Faute de renseignements plus précis, personne, à commencer par moi, ne savait ce que j'étais venu foutre sur terre."
Jean-Paul Sartre, Les Mots, 1964
La mia vita è come una bava di lumaca in una foresta.
Quasi invisibile, evanescente e trascurabile.
Eppure sono qui, a lasciare una scia di cui nessuno si ricorderà. Che anche per Dante Alighieri o Gesù Cristo, ad un certo punto le loro bave di lumaca spariranno, nel Big Bang finale o sgretolate nel tempo o nei fraintendimenti di chi pensa di osservarle e conoscerle, quando in realtà sta guardando il riflesso del riflesso del riflesso nel proprio occhio.
Eppure sono qui, e l'unica cosa che riesco a fare è dirmi che non è tutto uguale.
Non le parole scritte, non le parole dette e nemmeno quelle lette, non i sorrisi, non le lacrime non il peso la qualità il colore dell'amore, non i cieli e non i venti, non le mani e non le bocche, non i fiori non le musiche,  non le fabbriche non le stalle non gli uffici non i treni. Non sono tutti uguali.
Eppure tutte queste cose hanno una sola funzione: sono un diversivo dal pensiero della morte. Del mio essere sola davanti alla morte. Dal momento in cui mi girerò e vedrò la bava di lumaca che ho lasciato dietro di me. Inutile, compiuta e quindi vicina alla definitiva scomparsa.
Eppure, la bava di lumaca che è la mia vita non può che compiersi e farsi che nell'assommarsi di scelte, che no, non sono tutte uguali.
E la mia bava di lumaca, svanirà. Ma forse potrò vederla, per un momento, perlacea, trafitta dal sole, bella e preziosa e insostituibile. Forse.
O forse no.
Eppure sono qui.



mercoledì 16 aprile 2014

Le cose che farò una volta tornata in Italia

I have been to hell and back.And let me tell you, it was wonderfulLouise Bourgeois

Tra tre giorni sarò a quest'ora sarò a Orio al Serio. Oltre a ringraziare la Ryanair, che sebbene odi non posso che ammettere che sia comoda, mi sembra giunto il momento di fare una lista delle cose che farò una volta tornata in Italia.
Amo le liste, e poi per me questo è un nuovo inizio, quindi faccio la lista delle cose imparate e dei buoni propositi, come si fa a dicembre/gennaio per celebrare la fine/l'inizio dell'anno nuovo.
Ecco le cose che farò una volta tornata in Italia:
- farò moltissimo l'amore con il biondo e mai più espatrierò senza di lui.
- farò moltissime coccole ai miei nipoti, e ascolterò le loro storie e gli racconterò le mie. E li farò ridere, che le risate dei bambini sono la benedizione del mondo.
- andrò dalla mia mamma e dal mio papà a ringraziarli, che anche se mi hanno fatto in un modo per cui sono dovuta andare lontanissimo per trovarmi e per trovarli, ecco, mi hanno fatto.
- andrò dalle mie sorelle e mi farò coccolare
- andrò a salutare anche le zie e gli zii e i miei cugini e RdL tutta
- berrò un sacco di spritz con i miei amici
- pian piano chiamerò tutte le persone che avrei voluto chiamare in questi mesi, e gli dirò quanto gli voglio bene, e se possibile le vedrò
- comprerò una bicicletta
- comprerò una casa, a Milano. E l'arrederò e la terrò per benino. Poi prima o poi ci saranno pure dei bambini dentro la casa
- monterò il documentario che ho girato qui, e se farà schifo sarò contenta lo stesso, perché l'ho fatto quasi tutto da sola. E soprattutto perché l'ho fatto.
- lavorerò ad altri progetti miei, ora che so che non è impossibile farlo
- continuerò a disegnare, anche se sono una mezza chiavica
- continuerò a recitare
- ricomincerò a mettere l'anticellulite
- sarò meno pigra e sperimenterò di più
- proverò a non sentire il giudizio degli altri
- smetterò di cercare definizioni per me stessa, e per gli altri. Smetterò di voler essere diversa, e di volere gli altri diversi
- farò in modo di riuscire a fare la cosa che più mi piace al mondo: insegnare. Non solo Dante, le guerre puniche o l'attacco sull'asse, ma come diventare esseri umani. Ci proverò, per lo meno. E lo voglio fare in Italia.
- mi ricorderò dell'importanza di fare una cosa per volta, e quando non ci riuscirò e tutto mi sembrerà difficile, proverò a ridere di me e della mia confusione
- mi ricorderò degli amici conosciuti qui, e gli scriverò ogni tanto. E se verranno in Italia, farò in modo che la mia casa sia la loro casa
- mi ricorderò che essere cattivi, razzisti, giudicanti è molto più facile che non esserlo. E che l'unica cosa che conta, per diventare essere umani migliori, è fare le cose difficili
- mi ricorderò che essere felici è difficile, ma anche molto facile, e che nessuno può essere felice al posto mio, o farmi felice al posto mio.
- terrò presente che essere buona non vuol dire essere cogliona, e nemmeno smettere di lottare per le cose in cui credo. Ma significa smettere di lottare contro qualcuno.
- non andrò mai più a vivere in un posto freddo
- cucinerò di più, e in modo più salutare, e mi iscriverò ad un gruppo di acquisto solidale
- proverò ad essere vegetariana seriamente
- assaporerò le pause, e saprò che tutto passa
- amerò la mia malinconia, il mio disgusto per l'umanità, le mie paranoie, la mia tendenza depressoide, perché senza di quelle non sarei io, e senza quelle non vorrei diventare migliore
- apprezzerò la pazienza
- avrò fiducia, e mi farò stupire
- saprò gestire la noia, e la routine, senza diventare pazza, ma nemmeno senza diventare noiosa
- comprerò un bollitore elettrico per il the e le tisane, che non posso più vivere senza
- smetterò di dire che all'estero è sempre tutto più bello, più giusto, più facile e meno provinciale
- smetterò di dire che "come in Italia, da nessun'altra parte"
- mi ricorderò che quando arriva la merda, lamentarsi non serve a niente, e l'unica cosa sensata da fare è usarla come concime
- continuerò ad usare gli altri come specchio del mio orrore o della mia bellezza, e mi offrirò a loro per fare lo stesso
- conoscerò persone e posti nuovi, e supererò ogni giorno le mie personali, interiori Colonne d'Ercole, e non avrò più paura d'andare all'Inferno come Ulisse. Perché all'Inferno non credo più.


lunedì 7 aprile 2014

Potrei scriverti io una poesia d'amore

Potrei scriverti io una poesia d'amore.
Che le leggo, le poesie d'amore,
ma i maschi le scrivono per le femmine,
e non posso dedicartele;
e ad Alda Merini abbiamo strofinato le parole così a lungo
che non ne è restata che la buccia.
Ma che poesia posso scrivere io?
Di che posso parlare?
Non dei capelli, del polso gentile e del sorriso.
Delle gambe? Fa ridere ammettere che mi piacciano.
Non posso scrivere una poesia per far ridere di me.
Non posso lasciare che mi ami fino al punto in cui riderai di me.
Ma posso ridere finché mi amerai.
E posso farti ridere, perché così mi amerai.
E posso ignorarti, così torturata mi amerai.
E posso essere puttana, così sarai geloso.
E posso essere santa, così sarai sereno.

Oppure posso stare zitta, e ascoltare la tua voce,
che si fa scoppi e crepitio.
E, zitta, guardare nei tuoi occhi la tenerezza,
concreto desiderio di corpi.
E con parole senza lettere seguirti nel cosmo.
E, zitta, annusare e cercare nell'odore
i confini tra me e te. E non trovarli.
E, zitta, sentire l'anima che si raffredda,
mentre vai via.
E, zitta, dirti: "Oggi, fai tu.
E anche domani."
Perché io presumo, e non so niente.
Io tagliuzzo e rompo tutto.
Io ho ragione, e sbaglio tutto.
Io mi scuso e raggomitolo.
Tu ti fermi.
Tu mi fermi, mi spacchetti.
E sono nuova. E sono intera.



domenica 6 aprile 2014

Le parole proibite nel 2014: comunismo e capitalismo


In realtà la borghesia conosce solo un modo per risolvere il problema delle abitazioni, e si tratta di una soluzione che riproduce di continuo il problema. È il metodo chiamato “di Haussmann”… Le ragioni possono essere le più diverse ma il risultato è sempre lo stesso: i vicoli sordidi e le stradine malfamate scompaiono, permettendo alla borghesia di congratularsi sfacciatamente con se stessa per il magnifico successo conseguito, ma ricompaiono immediatamente da qualche altra parte… La stessa necessità economica che li ha prodotti in un luogo li riproduce in un altro. 
Engels, La questione delle abitazioni, 1872

Ormai la parola comunista è una parolaccia. La si associa solo ad una cosa: il comunismo sovietico, che di certo non era un posto divertente dove vivere. Non raggiunse l'obiettivo di rendere gli uomini uguali, rese solo qualcuno più uguale degli altri. Non cambiò i parametri su cui valutare l'economia, visto che URSS e USA per decenni fecero la gara di forza sulla produttività, la conquista dello spazio e altre simili amenità. Non trasformò la tecnologia in uno strumento di liberazione degli umani dalla maledizione biblica della fatica. 
I teorici del comunismo, meglio, del socialismo, videro con chiarezza i problemi dell'assetto economico-politico e sociale del loro tempo e le loro previsioni sullo sviluppo della società capitalistica (concentrazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre minore di persone) sono perfette.
Però l'applicazione pratica, il tentativo di applicazione pratica è stato fallimentare. Anche a Cuba, dove tutto sommato grazie anche ad un clima più mite (e quindi una predisposizione d'animo diversa) le cose non sono andate così tragicamente, il socialismo reale è agli sgoccioli. Del resto il capitalismo non fa stare meglio le persone. Basta guardare gli Stati Uniti con le agghiaccianti statistiche sulla povertà, o la Cina capitalista per capirlo. O la tecnologia usata solo come mezzo per risparmiare su quel fastidioso obbligo di far lavorare gli operai.  O le code alla Caritas dei pensionati, a Milano, nel 2014.
Però il capitalismo non lo possiamo criticare, perché sarebbe come il cane che morde la mano che lo nutre, o il pesce che vuole fare a meno dell'acqua in cui vive. Ci dicono che il capitalismo è "naturale". Belli miei, di naturale e inevitabile quando si parla di cose umane non c'è niente, a meno che non si persuadano le persone del contrario. Ad esempio: per un bambino con una famiglia violenta, quella è la sua normalità, e non può che presupporre che in tutte le famiglie funzioni così. Ma quando, con tanta fatica, pazienza e amore qualcuno gli svela che non è così, il mondo per lui cambia. E anche lui cambia, anche se sempre si porterà con sé i segni di quella prima esperienza. 
Comunque, tornando al punto, perché il comunismo ha fallito nonostante la precisione dell'analisi? Perché il capitalismo continua invece a mettercelo in quel posto con grande naturalezza? 
Perché? Be', mica sono una politologa. Ma mi piace guardare la natura degli esseri umani, a partire dalla mia, e dare una risposta. 
E mi sembra di aver capito che tutti gli esseri umani vogliono qualcosa di speciale nelle loro vite. Non possono sopportare di essere una cosa tra tante altre cose. E sia il capitalismo sia il comunismo lo fanno. Ci fanno sentire parte di un ingranaggio. Ci fanno sentire in colpa, o addirittura ci arrestano a seconda dei casi, se deviamo dalla norma, se abbiamo sogni altri rispetto al successo, i soldi, l'obbedienza alla realtà. 
Però il capitalismo è più intelligente, e sfrutta questo desiderio umano vendendo il sogno del successo. Se ci si impegna, si lavora, si rispettano le regole (almeno formalmente) si può agevolmente scalare la piramide sociale. Fondamentalmente si può passare dall'essere fottuto da qualcuno al fottere qualcuno. 
Lo chiamiamo sogno americano. A me sembra un incubo, in cui le nostre vite restano intrappolate. 
Cerchiamo il successo e la ricchezza, perché è ciò che siamo abituati a considerare come prezioso e rilevante. 
Ma ci dimentichiamo di noi, e degli altri. E se pensate che sia buonista, andate a fare in culo.  Steve Jobs e il suo discorso "Stay hungry, stay foolish" è bellissimo e pieno di insights, ma la sua visione del mondo ha infine portato la Apple, che io finanzio (sia ben chiaro, non mi tiro fuori dal gioco) a produrre i suoi prodotti in Cina con condizioni e paghe non esattamente democratiche. 
A me pare che forse la parola comunista potrebbe tornare in voga in un'altra accezione, oppure insomma possiamo inventarne un'altra meno sporca di quella, partendo dal fatto che l'umanità ha bisogno di una cosa: di un sogno comune.
L'asfissia dei sogni collettivi/collettivistici del comunismo e il livore dei sogni individuali capitalistici sono un massacro per milioni di vite. 
Serve un sogno comune, in cui io conto quanto gli altri, ma so che io sono diverso da chiunque altro. Un sogno in cui questa diversità sia accettata, elaborata, condivisa, partecipata e rispettata. Un sogno in cui nessuna religione dica che le donne, gli omosessuali, i neri o i punk sono pericolosi. 
Un sogno che dica solo che we're born to shine. E dia ad ogni individuo la possibilità concreta di farlo, a modo suo, per sé e per far sì che possano risplendere anche gli altri.
Finché risplendere è vietato perché ci rende eccezionali e dobbiamo essere normali, e finché chi risplende risplende tanto da rendere invisibili gli altri, perpetueremo quell'inferno in terra di cui parla Sartre, in cui gli altri sono il nostro personale inferno. Perché noi siamo il loro personale inferno. 

sabato 5 aprile 2014

Le cose che ho imparato in sette mesi di scuola nella campagna inglese

Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
- Hypocrite lecteur,  - mon semblable,  - mon frère!

Oggi è stato il mio ultimo giorno di scuola a Spilsby, Lincolnshire, UK.
Forse è presto per fare un bilancio, ma voglio fissare questo momento di consapevolezze all'incrocio tra me, la stranierità, l'adolescenza e l'educazione,
Al di là delle questione prettamente didattiche (esiste un modo di insegnare storia che non è il prof che parla per due ore, si possono coltivare talenti artistici anche dentro un percorso didattico strutturato) ho capito che:
- in classe non hai solo dei ragazzini. Ogni mattina arrivano a scuola le loro famiglie e l'intorno geografico, socio-geografico, psico-geografico, e il governo, e i datori di lavoro, e il mondo intero. Hai torme di persone davanti a te. Tu occupati solo dei ragazzini,  che sono il tuo vero datore di lavoro, ma non dimenticarti che tutti gli altri hanno influito, influiscono e influiranno su di loro.
- il fatto che i ragazzini siano il tuo datore di lavoro non significa accontentarli o che debbano averla vinta ogni volta. Significa conquistare la loro fiducia e ammirazione, così li avrai vinti per sempre, e faranno tutto quello che gli chiederai. Ma loro non sapranno che lo stanno facendo per loro stessi e non per te, quindi tu ringraziali.
- per insegnare qualcosa devi trovare un punto di equilibrio tra la noia di quello che gli studenti sanno già e l'impossibilità di quello che non sanno ancora fare. Un faticosissimo equilibrismo. E devi sempre spiegare perché stai insegnando ciò che insegni. La risposta: "è nel programma" non convince nessuno.
- per essere un bravo insegnante servono sogni. Sogni personali, e sogni sui ragazzini. Di un loro futuro brillante, luminoso. Non ricco, no quello che cazzo c'entra. Un sogno di felicità. Non servono le statistiche, non i codici di progresso. Ma i sogni. E principalmente il sogno che questi ragazzini costruiranno un mondo migliore. In una scuola di provincia è maledettamente difficile sognare e far sognare. Perché tutto è lento, immutabile, conservatore perché conservato, disperso, lontano ma nello stesso tempo tutti ti controllano. In provincia i sogni diventano prepotenti, e devi andare a farli germogliare altrove, o non diventano. In provincia i sogni non superano i confini del villaggio, i limiti del pettegolezzo. Devi avere sogni giganti, in provincia.
- la provincia è uguale ovunque. Mi fa mancare il fiato e venir voglia di scappare, ovunque si trovi. Ma mi affascina, anche, perché mi fa tornare da dove sono partita. E in provincia, quella vera, la gente si sposa tra consanguinei e gli stranieri sono quelli del villaggio accanto. Immaginatevi come potevo essere straniera io. Ma il fatto è che siamo tutti stranieri, ma con una grande urgenza di appartenenza e accettazione.
- quello che un insegnante sogna per sé, determina il sogno che avrà per gli studenti. Ma un insegnante sa anche che il sogno non è un obbligo, ed è pronto a cambiare idea,  perché sa che ha molte più cose da imparare che da dare. La supponenza degli insegnanti è orrenda, sterile, anzi controproducente. E i ragazzini ti vedono attraverso. Non puoi mica mentire od abbellirti. Il sorriso finto lo sgamano subito. La noia, pure. La paura, in un nanosecondo.
- insegnare è gettare un seme che non sai quando germoglierà e che cosa ne nascerà. Ma se non lo lanci, questo seme, non nascerà niente. Le date, i fatti, i nomi, quelle se le dimenticheranno. Ma il seme, prima o poi, fiorirà. E questa scuola inglese che si ossessiona con i risultati è una scuola che non vuole che gli insegnanti lancino questo seme. Perché il seme è potenzialmente rivoluzionario, mentre le statistiche sono inerti (se non per tagliare i fondi a chi non li raggiunge, e obbligarlo a insegnare per il risultato immediato). Se in Italia mi lamentavo di questo controllo, in Inghilterra è così opprimente da togliere il fiato. 
- nella scuola dove ho lavorato gli insegnanti erano stressatissimi: 35 ore a settimana a scuola più il tempo a casa di correzioni e preparazione, controlli ogni sei settimane, valutazioni interne, valutazioni esterne, report, programmazioni scritte, riunioni. E nessuna staff room. E soprattutto  la supervisione non disinteressata di un tizio che guadagna dal gestire l'accademia grazie a detrazioni fiscali gentilmente concesse dal "labourista" Tony Blair. Cazzo, che sogni puoi avere in queste condizioni? Gli insegnanti sono lavoratori, ma non possono essere sfruttati (nemmeno gli altri lavoratori dovrebbero esserlo, tra l'altro). Gestiscono relazioni, e devono avere il modo ed il tempo di essere aperti per accogliere queste relazioni.
- un mio studente aveva problemi di dislessia. Ogni tre parole mi chiedeva: "Is the spelling correct?" e lo era sempre. Lo stigma del problema addosso ad un ragazzino lo segna a lungo. Nello stesso identico modo,  il nostro giudizio sulle cose le fa diventare quello che vogliamo, anche in senso negativo, visto che lamentarci vien sempre comodo. Le cose e le persone cambiano, mutano, ma solo se lasciamo loro lo spazio per dispiegarsi.
- R. è gigante, ha 13 anni ma se volesse potrebbe farmi seriamente del male. E' totalmente ingestibile: problemi di attenzione, di lettura, un'intelligenza superiore che non riesce ad esprimersi pienamente, unità alla naturale stupidità della sua età. L'ho visto felice solo cucinando, e ho visto la sua TA (sostegno) arrancargli accanto tutti i giorni. E lei riconosce in lui un'umanità e delle qualità uniche. Perché R. sa essere tenerissimo, e onestamente disarmante. Ma ho visto gli insegnanti insistere perché lui si comportasse secondo la norma. Ma che norma possiamo applicare a R.? La sua vita è la sua norma. Non è nasty, è solo ciò che può essere. E non sarà la voce grossa a dissuaderlo. E non sarà dargli una red card, metterlo in isolamento, spedirlo fuori, chiamare l'extra support ad aiutare il docente. Perché nel momento in cui l'insegnante gioca più pesante, gioca di forza ha perso. Perché ora il ragazzino sa che lo considera un nemico, e farà di tutto pur di vincerlo.
- Un giorno preparavo un piccolo video, e cercavo i costumi. Ho messo le scatole dei costumi nel corridoio, perché erano impilate in un minuscolo sgabuzzino. Giusto il tempo di aprirle, cercare, richiudere e riporre. Qualcuno passando le ha viste, e ha pensato che ero un pericolo per la sicurezza dei ragazzi e hanno fatto un report in segreteria. Oppure hanno pensato che la domanda di uno studente, a margine di una lezione, su come si diceva una parola in italiano, fosse una pericolosa distrazione sulla via della saggezza che loro stavano infondendo agli studenti. Quindi, le perle ai porci conviene darle solo se i porci hanno qualche possibilità di migliorare, ovvero sono ancora studenti. Agli adulti meglio dare solo quello che si meritano. E invece di arrabbiarmi, restarci male, giudicare, dovrei sempre ricordarmi che il nemico sono io. Perché se io sono serena, niente mi tocca. E per essere serena, non posso che fare una cosa, essere me. Peccato che in Inghilterra, in una certa Inghilterra che poi è simile ad una certa Italia, essere adeguati sia più importante dell'essere sinceri. Vedi tabella sottostante. Vedi la mia ironia amara sugli inglesi. Non sono mica serena, se noto tutto ciò.
- L, why are you here? ( sottotesto, at this lesson, if you are refusing to work) Risposta: Because I'm from Spilsby Miss. Why are YOU here? La sensazione di solitudine, di straniamento, di diffidenza, di rifiuto che ho provato io, straniera in una scuola di provincia, è la sensazione base di ogni essere umano sulla terra, da quando si stacca dalla mamma fino alla tomba. E ogni essere umano sulla Terra, tendenzialmente fa quel che può, quel che gli hanno insegnato a fare per proteggersi da queste sgradevoli sensazioni. Gli adolescenti attaccati (esplicitamente o implicitamente) dagli insegnanti, si proteggono attaccandoli, e viceversa. L'indigeno che si sente invaso dai forestieri, attacca vedendoli sbagliati, pericolosi. Lo straniero attacca l'indigeno, trovandogli i difetti, o bevendo rumorosamente wodka sulle sue panchine per difendersi dalla solitudine. La working class sgomita per arricchirsi, non capendo che il ricco ha bisogno del povero, e che per uno che ce la fa, milioni vivono in un'assurda rancorosa speranza. L'orrore del mondo è dovuto al fatto che il divide et impera è un meccanismo chiarissimo a quelli che comandano, che sanno usarlo per far fare le guerre intestine ai poveracci, invece che contro di loro.
- un regalo dato o ricevuto, un abbraccio a ciglio umido e un "ciao", in italiano, detto da (o indirizzato a) uno studente di cui ti ricorderai per sempre come se avessi tra gli 11 e i 16 anni, è una ricompensa eccezionale. Love is the answer.

La conclusione di tutto ciò è una sola. Almeno per me.
L'equilibrio tra individualità e comunità, tra differenze e umanità, tra tradizioni e novità, tra peculiarità e globalità, tra trasmissione del sapere e innovazione del sapere, tra autoritarismo e egualitarismo, tra si trova in un solo modo: bisogna uscire dal proprio ego.
Voglio ricordarmi sempre che niente di ciò che accade è un attacco a me, che gli altri sentono le loro miserie e si stanno, anche loro proteggendo. E che se attacco peggioro tutto. Posso solo provare ad essere gentile. Almeno al livello di vita quotidiana, delle persone che incontro e che sono come me. Anche se poi certamente esiste qualcuno che sa che fili sta tirando delle marionette che pensa di comandare, e per quelli riservo tutta la mia indignazione e cercherò per quanto possibili, di fotterli.
E voglio ricordarmi che tutto è collegato, l'altro non è altro, ma è un'estensione di me, altrettanto preziosa. Anche se diversa. Dividere il mondo in me/altri è come scegliere un braccio, tra destro e sinistro, a cui rinunciare. Saremo monchi per sempre, se faremo questa scelta.
Una volta affrontato l'ego, e vigilato, tenuto a bada, combattuto giorno per giorno, tutto il resto (ovvero il cambiamento politico, economico, sociale) sarà solo una naturale conseguenza di tutto ciò. Perché se fai crollare dentro di te il divide et impera, questo smetterà, prima o poi di funzionare. E' l'unica rivoluzione possibile, che è poi il mondo, possibile, ancorché difficile di gente come Gandhi e Mandela. Quindi certo che serve fare politica, e protestare contro chi il divide et impera lo usa e lo vuole diffondere sempre di più. Bisogna però, credo, soprattutto cambiare prospettiva. Ma che fatica, e che tempi lunghi.
L'alternativa, però. ricordiamolo, è privarci di un braccio... Preferisco avere pazienza, e tenermi due braccia.