sabato 8 dicembre 2012

L'ultimo post di questo blog

C'era una volta una fata.
Tutta ricciolina, con le ali trasparenti e iridescenti, come quelle di una libellula. Volava sopra il pezzo di mondo che le era stato assegnato, e pensava che non ne esistesse altro.
Vedeva sempre le stesse persone danzare assurde e precise geometrie sotto di sé, gli stessi campi verdi in primavera gialli d'estate grigi in autunno e neri di terra smossa in inverno. A volte bianchi di neve.
Respirava l'odore del letame. Non lo sentiva quasi mai, solo qualche sera in maggio le prendeva la gola e la faceva tossire. E tossendo le sue ali tremavano nel sole o scrollavano le gocce di rugiada tutto intorno.
Conosceva le voci delle persone, e riconosceva il fruscio di ogni albero o cespuglio. Si avvicinava ai cani addormentati, e questi nel sonno cercavano di prenderla, ma non ci riuscivano mai.
Stava nel sole, con gli occhi cangianti semiaperti nella luce. Sentiva avvicinarsi i camion, li seguiva per un po' tremando nello spostamento d'aria, poi tornava indietro. I treni la lasciavano estasiata. Dritti sotto di lei, tagliavano la nebbia o l'afa, come un pendolo, avanti e indietro. Un sibilo li precedeva, lei volava più forte che poteva insieme a loro, poi si fermava, senza forze e con il cuore impazzito, nel rombo che si lasciavano dietro. Lo spostamento d'aria la stordiva, e le piaceva. Vedeva dei volti dai finestrini a volte, quando volava alla stessa velocità del treno. Erano distratti. Assorti. Ma come? Erano sul treno, il mezzo più veloce che potesse immaginare, e non erano entusiasti, estasiati, rapiti all'idea di essere tutto ad un tratto altrove? Come si fa ad annoiarsi?
Lei in effetti non sapeva cosa volesse dire annoiarsi. Non dava il tempo alla noia di entrare. La teneva lontana. Ogni giorno era un giorno nuovo: a volte dormiva fino a tardi, nascosta nelle pieghe di un tronco, a volte andava a svegliare il sole nella campagna vicino al cimitero.
A volte beveva dal fondo di una tazzina di caffè abbandonata sul tavolino di un bar sotto i portici di mattone, e tutto girava più velocemente. Altre volte invece da un bicchiere di vino. Il mondo diventava colloso, come la sua bocca senza labbra.
Ma un giorno, senza motivo né preavviso, la fata conobbe la noia. Da giorni volava nel sole di giugno, ormai polveroso. Quel pomeriggio il paese di mattoni e cemento riposava nel dopopranzo. La fata si fermò sul balcone di un appartamento (bello, con il camino che riposava e le luci calde, le tende morbide e lucenti, immobili) e si chiese: e adesso cosa faccio? Aveva scoperto la noia, oppure la noia aveva scoperto lei. Chi può dirlo?
Nei giorni successivi volo stanca e non andò alla fontanella per togliersi la polvere dalle ali. Non salutò gli alberi, né li riconobbe. Il terzo giorno bevve 4 fondi di vino. Si svegliò la mattina dopo arruffata, opaca, tremolante. Si andò a lavare, mangiò mezzo chicco di grano e si rimise a volare. Guardava ogni cosa con attenzione. Era come se tutto fosse nuovo. Le piaceva. Ma era stanca. Era come se una patina fosse scesa sui suoi occhi, e guardare per bene le costava un'enorme fatica.
Poi si ricordò di un gioco che aveva inventato. Sapeva che virando veloce accanto a quella casa laggiù, con l'intonaco rosa sporco, sarebbe riuscita a fare la gincana tra la palma e il cipresso, così ridicoli vicini, così ridicolmente vicini. Lo fece, sempre più veloce, contando mentalmente il tempo. Alla fine era senza fiato, stremata, ma orgogliosa. Era stata velocissima. Vide un bambino in una culla, sotto di lei. La fissava ridendo. Ogni tanto accadeva, qualche bimbo poteva vederla. Niente le dava più gioia. Essere vista. Dare gioia. Dormì bene quella notte. La fatica fece diventare buio in fretta, e fece scendere il silenzio. Sognò il bambino.
Ma la mattina seguente, bevendo la prima goccia di rugiada, di nuovo. La noia era tornata a trovarla. Era spossata eppure irrequieta. Cercava un posto dove andare, ma restava ferma, incapace di andarci. Volò per un po' nei dintorni, poi si confuse nel vento e si spaventò per un cane lontano.
Torno all'albero in cui si era svegliata, un salice piangente nel parco davanti alla scuola. Chiusa. In un attimo capì. Non era annoiata, era sola. Doveva fare amicizia.
Con chi? “Fate nei paraggi non ce ne sono, il ministero ha fatto dei tagli e la prima sta a 2 giorni di volo da qui. Elfi, gnomi, folletti sono in sciopero da anni, ormai si sono trasferiti tutti ai Caraibi, vivere nei boschi di pioppi allineati era diventato insopportabile. Gli umani non mi vedono, a parte i piccoletti che però non parlano e nemmeno si muovono. I cani nemmeno mi possono vedere, ma mi vogliono mangiare lo stesso. Le bestie selvatiche corrono tutto il tempo. Gli animali nelle stalle sono tristi. Gli alberi mi amano, ma nel loro modo così distaccato, devo essere sempre io a mettermi nel punto giusto per farmi fare le coccole dalle foglie. Gli insetti vivono troppo poco, mi affeziono e già non ci sono più. Chi manca? Ma certo, gli uccelli!”
Così la fata decise che avrebbe conosciuto tutti gli uccelli del cielo (del cielo che lei conosceva, mica tutto). Andò dalla rondine, nel nido sotto la grondaia. E questa, mentre andava e veniva dal prato dove trovava vermi prelibatissimi, le raccontò la fatica dell'andare e del tornare, e del nido da costruire e mantenere, e dei piccoli da allevare e poi salutare. Ogni anno, portata via dall'istinto e costretta a tornare. Era buona, la rondine. Ma troppo, troppo seria. Lei voleva soprattutto giocare.
Andò dal piccione, ma fu un disastro. Continuamente scappava, attratto da pezzi di focaccia, o spaventato dai passi umani. E quando stava fermo, il dondolio continuo la frastornò a tal punto che lo saluto discretamente.
Volò allora verso il passerotto. Viveva nei tigli vicino alla fontana. Una vita di moscerini e briciole cadute dalle tovaglie sotto le finestre, o lasciate per lui sui davanzali. Piccola, come lui. Semplice, esattamente come lui. La sua compagnia era deliziosa, pacificante, ma lui era troppo pesante per andare con lei nelle scorribande ai limiti del mondo.
Andò quindi dal fagiano, nascosto nei campi, non li avrebbe mai lasciati. E dagli storni, che si raccontarono tutti insieme, un corpo unico di coreografie velocissime, lontane e bellissime e ondulatorie. Sarebbe finita schiacciata lì in mezzo.
Non conosceva altri uccelli lì. Aveva imparato ad apprezzare quelli che aveva conosciuto, ma ciononostante giorno dopo giorno, la noia si trasformava in tristezza. Le ali ingrigite, le orecchie incapaci di ascoltare, la bocca come un taglio orizzontale, chiusa.
Poi, in una notte di silenzio senza sonno, incontrò il gufo. Che le raccontò delle attese. E di ciò che i suoi occhi gialli gli permettevano di vedere. Ombre, vere, nella notte, che si facevano suoni incomprensibili e odori indecifrabili, senza cambiare forma. Dedito ai misteri, il gufo affascinò la fata, che rimase con lui ad esplorare la notte. Per molte notti di seguito.
Il gufo le spiegava, paziente, le teorie che aveva elaborato. La fata lo stava ad ascoltare, rapita. Timidamente provò ad avanzare le sue teorie, ma il gufo non era mai d'accordo. Gliele smontava tutte, con argomenti inoppugnabili, almeno per la nostra fata. Che notte dopo notte iniziò a deperire. Senza la luce del giorno, la bellezza del sole, le corse a perdifiato, chiusa nella notte e incapace di penetrarne i misteri insieme al gufo (che era sì suo amico, ma troppo assorto nelle sue ricerche per preoccuparsi per lei) si sentiva sempre più stanca. Non era noia, con il gufo non ci si annoiava. Era mancanza, desiderio di vita, lontananza.
Un'alba fredda di novembre decise: tornò a vivere nella luce, di luce. Si prese in faccia la nebbia e le brine dell'inverno, guardò il bianco della neve posarsi ovunque, seguì i vapori dei fiati di bimbi e animali nel freddo per un lungo inverno. La luce era poca, ma più di prima. Resistette, finché la neve si dissolse. Ogni tanto andava a trovare i vecchi amici, tranne la rondine che aveva lasciato il nido vuoto, ma presto sarebbe tornata dalla sua Africa invernale. La noia era sempre con lei, ma la fata iniziò a conviverci. Guardava il mondo, ascoltava, gioiva di cose piccole e contemplava le grandi. Seguiva i treni con i vetri appannati, spiava i bambini nelle case.
Nel primo giorno caldo di maggio si spinse lontano, ai margini del posto che le era stato assegnato. e incontrò un'upupa. Un uccello raro da incontrare, con una cresta spettinata e un abito a righe un po' serio un po' clown. Un nido minuscolo, in un sottotetto pieno di libri. L'upupa leggeva tutto quello poco per volta lei e i suoi genitori prima di lei e i suoi nonni e i suoi trisavoli erano riusciti ad accumulare in quello strambo nido.
Leggeva e poi volava via, per capire se c'ere un modo di accordare i suoi voli al ritmo delle pagine. A volte ce la faceva, e tornava felice. A volte no, ed era imbronciata, chiusa, dolente. La fata andava e tornava dal nido, era incuriosita da questo uccello. E si divertivano a raccontarsi, a scambiarsi opinioni, volarsi intorno.
L'upupa era imprevedibile e libera, tanto che una volta se ne stette via dal nido per una settimana intera.
La fata torno al suo solito salice. La noia era tornata forte a sgranocchiarla. Per togliersi il tormento andò fare la solita gara tra la palma e il cipresso. Una, due, tre, cinque dieci volte. Sempre più veloce. Finché dalla casa sentì levarsi un lamento alto. Corse, e vide il bambino che qualche mese prima rideva con lei, pallido, nelle braccia della mamma che disperata lo chiamava. Lui non rispondeva. La fata in un attimo, mentre ancora respirava forte per i voli velocissimi tra palma e cipresso, sentì un dolore fortissimo attraversarle ogni atomo. Una rabbia per l'ingiustizia a cui stava assistendo. Un orrore per il mondo. Tremante fuggì, per cercare conforto da qualche suo amico. Stava pensando a cosa dire, e come dire quello che stava provando. Dargli una forma per non soccombere.
Ma mentre volava, si trovò, senza accorgersene, di nuovo davanti alla finestra. Respirò forte, a lungo. Poi si infilò tra le tende, si avvicinò alla mamma disperata e le volteggiò attorno. Non la vedeva, e nemmeno il bimbo, che era ancora immobile.
Dietro l'ordine di un impulso fortissimo, volò nella minuscola narice del bambino. Era buio, stretto, freddo. Faceva fatica. Andò a tentoni, le mancava l'aria. Era spaventata, oppressa. Si appoggio da qualche parte e chiuse gli occhi.
Basta, pensò. Voglio uscire.
Aprì gli occhi. Vide la donna. Sentì una voce, piccola e che le vibrava ovunque, dire mammamamama. Era la sua. Ma era il bambino che parlava. La mamma le saltò addosso. Baciò il bambino ovunque, e lei, piccola com'era, sentiva i suoi baci ovunque. Sentiva l'odore della donna, di pianto, di tristezza che se ne andava, e l'odore gioioso di mele che tornava.
Era diventata un bambino. Una bambina per la precisione. Marilisa.
Aveva letto Pinocchio insieme all'upupa, e rideva al pensiero.
Guardò la mamma. La sua mamma. Poteva chiamarla così? Le si strofinò addosso. Era a casa. Poi si allontanò. Per giocare con il trenino. Da grande ne avrebbe presi molti. Meglio imparare a conoscerli.


giovedì 6 dicembre 2012

Condòmini. Appunti per una filastrocca.

Ho vissuto accanto a me stessa
come in un condominio signorile.
Incontrandomi in ascensore per caso,
cogliendomi con le dita nel naso,
mi giravo dall'altra parta educatamente.

Sempre borghesemente fingevo indifferenza,
curiosità attrazione repulsione
erano per un cuor di leone
Era solo paura di vedere.
Vedere obbliga a fare. Ignorare permette di riposare.
O scansare.

La borghesia è una malattia.
Antidoti per cortesia.



martedì 4 dicembre 2012

Aprire il cielo per vedere cosa c'è dentro

Prima che per trent'anni avessi studiato lo zen, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando giunsi a una conoscenza più profonda, vidi che le montagne non sono montagne e le acque non sono acque. Ma ora che ho raggiunto la vera sostanza del conoscere, sono in pace, perché ora vedo le montagne ancora una volta come montagne e le acque come acque
Ieri ho postato su Facebook delle mie foto belle. Mentre lo facevo in realtà stavo pensando a quanta meschinità esiste in me. E probabilmente le ho postate proprio per dimenticare il mio buio. Perché una teoria greca, poi confluita nel Cristianesimo, ci ha insegnato che bello buono e vero coincidono. Stavo mostrando che sono bella e apprezzabile, proprio mentre stavo elaborando la consapevolezza di fino a che punto potevo spingermi con la mia doppiezza e crudeltà e mancanza di sincerità e autodifesa egoica.
Facebook per noi narcisisti è imprescindibile. Tanti like rafforzano l'ego.
Ora invece scrivo questo post per confessarmi. La sensazione è che anche questo passaggio sia parte del mio narcisismo. Voglio mostrare, di nuovo, quanto sono brava, in questo caso a confessare la mia parte buia. Ma sempre per ottenere una certa rispettabilità sociale.
Ma allora non se ne esce? Per forza sono costretta ad essere me, così infelice, inutile, in loop per sempre? Come faccio a vivere in questa banalità? Non è possibile. Non voglio vivere così. Ho sospettato a lungo che non se ne uscisse.
Ma ora sono certa che se ne può uscire. Come?
E qui arriva il punto importante: gli strumenti che uso per procedere, ora che so che ne posso uscire.
La consapevolezza come l'ho imparata durante la meditazione. Non rifiutare quello che c'è, starci dentro, quasi nel senso in cui  lo direbbero i ragazzini milanesi. Guardare il pensiero nel suo sorgere, crescere e morire, interrogarlo. Guardare il pianto mentre arriva, e deporre le difese. Passerà. Avere come meta lo svelamento di me stessa a me stessa, senza rinnegare però quello che sono ora. E senza controllare. Lasciare andare, e farmi sorprendere.
Rifletto allora su Nietzsche, che mi ha insegnato a non credere mai alle giustificazioni che mi do. Accettare le conseguenze dei gesti che si fanno. Indagare, sempre.
E poi mi viene in mente il procedimento che si segue per l'analisi di un film: prima si procede alla scomposizione, per poi giungere ad una ricomposizione che inglobi le informazioni assunte durante la scomposizione per elaborare una chiave di lettura globale, più profonda e completa. Non è certo per caso se l'analisi psicologica ne condivide il nome...
E ancora, il teatro di scuola realista, che mi ha insegnato a fare le cose per me. E non per il pubblico. Perché se io non arrivo a toccare e non sento davvero le emozioni che sto mettendo in scena, sto ingannando me e gli altri, che siano compagni o pubblico. E questo vale anche nella vita. Non cercare di essere come mi vogliono o si aspettano. Ma indagare come sono io, e esserlo pienamente. Senza paura. Offrirsi.
La compassione. Per me e per gli altri. Sospendere il giudizio. Essere esigente ma non inflessibile. Con la spina dorsale eretta, ma non rigida. Buona ma non cogliona.
Fotografare. Cercare il punto di vista migliore. Cogliere l'attimo. Fare qualcosa di bello benché fine a se stesso, per dare forma al mondo. Per imparare a guardarlo e quindi ri-crearlo.
Ecco, questi conosco. Questi posso usare. Basta girare per ipermercati. Prima o poi questi si spunteranno, lo so, ma per ora sono ancora in buono stato.



lunedì 3 dicembre 2012

Inesorabile, quasi più del cinepanettone a Natale

Se vuoi avere qualcosa che non hai mai avuto, devi essere pronto a fare qualcosa che non hai mai fatto.
citazione senza autore, che rimbalza su blog e Facebook

Non puoi cercare contemporaneamente la verità e la consolazione. O ti consoli con tutto quello che fai (e ci sono mille modi dallo shopping alle droghe, dalla religione al sesso, dalla carriera al volontariato) o cerchi la verità in tutto ciò che fai (e puoi persino fare le stesse cose che danno consolazione, ribaltandone la prospettiva).
Verità, che come dice Gesù, rende liberi, mica alienati. E la libertà è faticosa.
La scelta è tua. E soprattutto mia.



domenica 2 dicembre 2012

Let's go back to work, now!

Perché i nodi vengano al pettine e vengano sciolti, bisogna prima
a. sapere dove abbiamo la testa e cosa sono i capelli
b. sapere come è fatto un pettine
c. recuperarne uno
d. imparare a maneggiarlo finché riusciamo a districare i nodi senza strapparci i capelli.
E' possibile, anzi raccomandabile, anche chiedere aiuto a qualcuno di più esperto, paziente e preciso di noi, ma non perché lo faccia al posto nostro, ma solo per imparare la tecnica e per avere compagnia e suggerimenti. Il lavoro resta poi tutto nostro.
La metafora è chiara, no?


sabato 1 dicembre 2012

Una rilassata attenzione concentrata

Basta una sola goccia di pioggia nella piscina abbandonata, e il riflesso tanto reale quanto il reale, svela la sua natura illusoria e transitoria. Ma perché lo svelamento accada, deve esserci qualcuno pronto a cogliere il momento in cui la goccia tocca la superficie dell'acqua stagnante. E la muove, dissolvendo in un attimo di realtà l'inganno della mente.
Ma se invece di pazientare nell'attesa della goccia, si fa altro, si rischia di non accorgersene mai. Viviamo tutti in un deserto, dobbiamo attendere la goccia. Potrebbe non capitarcene un'altra. 





giovedì 29 novembre 2012

Non tanto come, quanto piuttosto perché ovvero l'obbedienza è sempre stata una falsa virtù

Stavo scrivendo una lenzuolata sui pensieri di questi giorni, tutti stretti tra loro e correlati sebbene provengano da suggestioni diverse (il teatro, la scuola con le sue dinamiche, il corso abilitante con le lezioni di scienze dell'educazione, le mie letture attuali ovvero La svastica sul sole, T.A.Z. e Simone Weil, la situazione politica con le elezioni all'orizzonte e quella economica con Monti in tv).
Risparmio tutti i passaggi intermedi e passo direttamente alla conclusione.
La disciplina va insegnata e applicata, ma solo come metodo per diventare liberi. E per riuscire a trovare un modo per liberarci, per sempre, di quelle persone e quelle entità che la disciplina ce la vogliono appioppare per farci essere obbedienti.


lunedì 26 novembre 2012

DOC

Ho voglia di scrivere un post ma non ho tempo per farlo bene. Ma visto che sono ossessivo-compulsiva e se non lo faccio sto male:
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I punti li ho messi pensandoci. Anche gli a capo. Ora posso continuare a fare ciò che devo fare. 


venerdì 23 novembre 2012

Chi lascia la strada vecchia per la nuova...

... non saprà mai ciò che non trova.
Durante le mortali lezioni di scienze dell'educazione, ho pensato una cosa.
Che per essere educatori, e in fin dei conti esseri umani (infatti se il fine dell'educazione è fare in modo che crescano esseri umani il più possibile liberi e pieni e consapevoli, allora voglio allargare l'educazione a ogni relazione, senza stabilire chi è l'educatore e chi l'educato) bisogna essere disposti a cedere pezzi del nostro mondo, del nostro modo di vedere il mondo, e a riceverne di nuovi.
Incontrare l'altro è come partire per un nuovo continente, bisogna prima lasciare quello vecchio per raggiungerlo, o semplicemente per incontrarlo a metà strada.
Il narcisismo, l'ideologia, la sclerotizzazione della mente e dello sguardo in ciò che presumiamo vero e immutabile, la difesa spesso passiva aggressiva del nostro orticello, l'incapacità di ricevere critiche e di criticare sono nemici acerrimi dell'educazione e della relazione.
C'è un lavoro gigantesco da fare su di noi, e che si fa anche nella relazione, non solamente prima. Sbagliando si impara. L'idea che un giorno saremo perfetti, e allora sì potremo relazionarci per davvero, è solo un'altra forma di presunzione, perché presumiamo di poter bastare a noi stessi.

E' tutto un po' confuso. Ma una domanda chiara ce l'ho: date le premesse di cui sopra, cioè che è necessario essere disposti a cambiare mentre si educa e mentre si entra in relazione, come possono esistere educatori cattolici? O anche marxisti se è per quello, ma scuole private pagate dallo stato di stampo marxista non me ne vengono in mente...


giovedì 22 novembre 2012

Cose che pensavo di aver capito e mi stavano sfuggendo

Come cantava Venditti, "certi amori non finiscono, fanno giri immensi poi ricominciano". Ecco, io mi sono innamorata di me e della realtà e di un sacco di cose nel corso dell'ultimo anno. Ma a volte l'amore sembra finire. Ora sta riemergendo dal fiume carsico che l'aveva inghiottito negli ultimi mesi.
Ecco i miei amori dati per dispersi:

- la ricerca ossessiva della felicità porta ad essere infelici. Strutturalmente. Perché se cerchiamo la felicità con metodi, teorie, sistemi che sicuramente avranno successo in futuro, stiamo in realtà affermando che adesso siamo infelici. E se affermiamo che siamo infelici, allora lo siamo davvero.
- i libri di Eckhart Tolle sembrano minchiate, ma dicono tutto quello che davvero serve sapere
- la mia fottuta paura di dire dei no è solo figlia del mio narcisismo catto-borghese, che mi impone di essere buona, accomodante, altruista e generosa. E invece no, per essere davvero buoni, bisogna fare solo quello che davvero si vuole fare. Siamo sempre egoisti, sempre. Ammetterlo è l'unico modo per smettere di esserlo. Nessuno dei grandi uomini e delle grandi donne passati su questa terra ha fatto nulla che non gli piacesse davvero. Fare le cose per gli altri è terribilmente faticoso, noioso, e incredibilmente improduttivo.
- interessarsi di politica, soprattutto se italiana e leggere i giornali significa allontanarsi dalle cose davvero importanti. Le notizie sono solo insalate di parole che ci impediscono di vedere la realtà come davvero è, sottoponendoci costantemente problemi, pericoli, violenze esterne a noi, allo scopo di allontanarci da noi stessi. Perché se stiamo vicini a noi stessi diventiamo liberi, e gli esseri liberi sono pericolosi. Molto ma molto più pericolosi dei Rom.
- per essere felici bisogna rischiare. Anche e soprattutto di essere infelici. Coraggio serve, mica teorie.
- le cose che fanno più paura vanno fatte. Subito.
- arrabbiarsi può anche fare del bene. Basta trovare lo stile giusto. Bisogna prima invitare ad una danza tutte le nostre emozioni, ruotare con loro come fossimo dervisci, usare la sospensione della razionalità generata da questa danza metaforica per capire perché ci stiamo arrabbiando e una volta che la testa smette di girare, non avremo più voglia o necessità di arrabbiarci. Saremo solo decisi.
- basta ricordarsi di respirare, il resto viene da sé.



lunedì 19 novembre 2012

M'illumino perlomeno ovvero della scala degli handicap

Il motivo per cui non ci illuminiamo, a prescindere dal significato specifico che si può attribuire al concetto di illuminazione  (cessazione dei desideri, contemplazione delle verità ultime, raggiungimento della pienezza umana e spirituale, abbandono del ciclo delle rinascite) è che crediamo di doverci illuminare.
In realtà siamo già illuminati, e il lavoro è solo quello di far emergere e diventare evidente e preponderante la parte di noi illuminata, totalmente umana totalmente divina totalmente piena consapevole felice appagata. E questa parte può essere grande anche quanto una capocchia di spillo, ma c'è sempre, in tutti gli esseri umani.
Anche in quelli che considero con una parola veramente politicamente scorretta "mongoli" o handicappati. Quindi se li considero tali anche io sono come loro, sono handicappata perché non riesco a vedere il loro potenziale. E perché sono presuntuosa.
Però ammettendo di essere presuntuosa ho la presunzione di esserlo meno, quindi mi sembra di essere meno handicappata di quelli a cui attribuisco degli handicap.
Ecco, questa attitudine alle scale di valori: meglio/peggio, più avanti/più indietro, meritevole/non meritevole, giusto/sbagliato è il vero handicap.
Ecco, ora pensandoci mi è venuta un'idea fantastica: creare una trafila che come per il golf assegni gli handicap. Si fa domanda, si viene valutati e serenamente si accetta il verdetto. E poi si lavora per giungere all'handicap zero e poter giocare con i pro.
Cazzo, quasi quasi brevetto l'idea e apro l'ufficio valutazione handicap spirituali.




giovedì 15 novembre 2012

E' difficile perché è difficile

La nonviolenza non è un paravento per la codardia, ma è la suprema virtù del coraggioso. L'esercizio della nonviolenza richiede un coraggio di gran lunga superiore a quello dello spadaccino. La viltà è del tutto incompatibile con la nonviolenza. Il passaggio dall'abilità con la spada alla nonviolenza è possibile e, a volte, addirittura facile. La nonviolenza, perciò, presuppone l'abilità di colpire. È una forma di deliberato, consapevole dominio del proprio desiderio di vendetta
Gandhi 
A chi obietta che finora nella storia non sono stati possibili cambiamenti strutturali con metodi nonviolenti, che non sono esistite rivoluzioni nonviolente, occorre rispondere con nuove sperimentazioni per cui sia evidente che quanto ancora non è esistito in modo compiuto, può esistere. Occorre promuovere una nuova storia.
Danilo Dolci 
Ho imparato la lezione della non-violenza da mia moglie, quando ho cercato di piegarla alla mia volontà. La sua determinazione nel resistere al mio volere da un canto, e la sua quieta sottomissione alla sofferenza provocata dalla mia stupidità, dall'altro, hanno finito per farmi vergognare di me stesso e convincermi a guarire dalla ottusità di pensare che ero nato per dominarla; in questo modo è diventata lei la mia maestra della non-violenza.
Gandhi

Ero a lezione di teatro e dormivo.
Ora sono a casa e potrei dormire ma non riesco. Mi sento addosso il turbamento di tutta la violenza a cui ho assistito, benché solo mediaticamente, oggi. Le piazze italiane. Le piazze in Europa. L'orrore di Gaza.
Non riesco a sentirmi assolta. Non riesco a sentirmi estranea. Non riesco a non chiedermi cosa si può fare. Che senso ha essere qui, pensare alla lezione di domani per spiegare la sceneggiatura alla 5C. Pensare ai progetti di dopodomani. Pensare all'amore, solo io e il mio amore. Pensare di andarmene. Pensare al colore delle pareti della stanza.
Provo a respirare, e a dirmi think global, act local. A dirmi, stai qui.  A riportarmi alla certezza che solo il mio personale cambiamento può portare cambiamenti nella società. Che non si può sperare di liberare nessuno nemmeno con un'azione politica animata da buone intenzioni, ad ampio raggio e profonda penetrazione nella società, perché se qualcuno si aspetta di essere liberato da un altro, finirà solamente per trovare un padrone diverso. Riportarmi alla certezza che non si può giudicare nessuno. Che non significa essere neutrali, ma provare a non vedere nemici. Provare a essere davvero non violenti. Prima nel pensiero che con i gesti. Provare a dominarla la violenza.
Perché il mio corpo sente il richiamo primigenio della violenza, della rabbia, della vendetta. E non posso negarlo, o imporre ad altri esseri umani di non sentirlo.
Ma so anche che come tutte le forme di pensiero, anche la non violenza si può propagare con un virus.
E allora vado in cerca di un contagio, e cerco maestri, e aspetto paziente (e non crediate che l'attesa sia una cosa passiva) che si risveglino dei semi dentro di me.
E nel frattempo addestro il mio corpo e la mia mente ad essere pronti per essere portatori sani di non violenza, per poi portare in giro il virus. E sperare in un contagio.

sabato 10 novembre 2012

Oppure (non c'entra Vendola)

Un tempo passato a fare le cose giuste, misurate, che dobbiamo fare, che non ci fanno male, che mantengono lo status quo, che non turbano le aspettative e i programmi, che appagano i nostri piccoli sfizi, che non ci fanno cambiare, che non ci chiedono responsabilità, che non ci fanno uscire dal seminato e nemmeno seminare di nuovo, che bilanciano rischi e opportunità, che ci fanno costruire e mantenere una buona opinione, che ci consentono di farci solide opinioni, che ci intrattengono e consolano.
Oppure una vita.


giovedì 8 novembre 2012

Pari e patta

Venire a patti con la realtà è stato l'obiettivo, nemmeno troppo consapevole fino a poco tempo fa, degli ultimi due anni della mia vita.
E ora mi sembra di aver capito una cosa.
Per venire a patti con la realtà c'è solo una cosa da fare. Ovvero prendere atto che la realtà i patti non li mantiene. Cambiare incessantemente è l'unico patto che la realtà può e sa rispettare.
Ma non ci si deve arrabbiare, o provare a convincere la realtà ad adeguarsi ai contratti che noi incessantemente le sottoponiamo. E' fatta così. Non può essere diversa, visto che è la realtà.
Per questo per essere sani di mente bisogna essere folli. Bisogna fottersene, e andare avanti. E se siamo bravi e pazienti e attenti e consapevoli, scopriamo che dentro le manifestazioni mutevoli della realtà, una realtà immutabile c'è. Ma se la cerchiamo solo allo scopo di sottoscriverci un patto, l'immutabile, che immutabile non era, si squaglia, muta forma e se ne va. E la ricerca riprende.


E adesso qualche ora dopo aver scritto questo post, mi sono imbattuto in questa citazione. Tout se tient.

mercoledì 7 novembre 2012

Sbatterci la testa

Stamattina come una scema ho sbattuto la testa contro il mobiletto del bagno. Ho rischiato di svenire dal dolore, e ho passato la giornata pensando che da un momento all'altro avrei avuto i sintomi del trauma cranico (nausea, vomito, abbassamenti di vista, perdita dei sensi, problemi con memoria e concentrazione e così via. Per ulteriori dettagli leggete qui).
Invece mi è solo cresciuto un corno, e mi è venuto il raffreddore, ma questo non credo che c'entri.
In realtà ho soprattutto capito che nella vita spaccarsi la testa a pensare e ripensare e rimuginare è molto peggio e infinitamente più da idioti che spaccarsela sbattendo.
Spero di superare la nottata, momento critico nel post trauma, e ricordarmelo anche domani.

martedì 6 novembre 2012

E qualche volta fai pensieri strani

Sì, faccio pensieri strani anche nel senso in cui lo intendeva Vasco.
Ma il pensiero più strano di oggi è stato:
"Formulare un desiderio riguardo a quello che vorremmo facesse qualcun'altro è idiota, prevaricatore, deludente e probabilmente fascista. Gli unici desideri coinvolgenti azioni altrui che possiamo sensatamente esprimere sono le letterine dei regali indirizzate a Santa Lucia/Babbo Natale/Gesù Bambino. E anche se spesso sono soddisfatte, non è detto che lo siano sempre e totalmente. Le condizioni necessarie al completo o parziale soddisfacimento di suddette letterine sono che hanno a che vedere con puri desideri di bambini, e soprattutto il fatto che Santa Lucia/Babbo Natale/Gesù Bambino sono degli adulti che ci amano molto. Forse troppo. Dovrebbero prepararci alla vita futura, in cui nessuno ci amerà incondizionatamente come mamma e papà, e regalarci il cazzo che volevano, meglio ancora niente."
Tutto questo è passato nella mia mente nel breve volgere di un blip.


lunedì 5 novembre 2012

Cose serie e cose utili nello stesso post

Allora, sono andata 4 giorni a meditare. A parte che sono sfinita perché l'uso preciso della mente è faticoso (soprattutto all'inizio perché invece se poi mantieni l'abitudine ti rende una scheggia) volevo raccontarvi questo fatto.
Tornando in auto, al casello dell'autostrada mi si è rotto un tergicristallo. Ovviamente quello di fronte al lato guidatore. E, ovviamente, pioveva. Ho guidato per un'ora protesa quanto lo consentiva la cintura di sicurezza verso il lato passeggero, tanto che credo che domani avrò il torcicollo.
E allora è stato ovvio: noi la realtà la vediamo sempre così, attraverso filtri che la deformano e distorcono, come le gocce d'acqua appoggiate sul vetro, che si accumulano poi si tendono per la forza del vento e poi si asciugano lasciando tracce. E la polvere, il fumo, lo smog, la resina, la cacca dei piccioni, le foglie, i volantini. Tutte cose che si accumulano, e che cambiano il modo in cui vediamo il mondo. Che sta ad ogni modo al di là dal vetro, separato, mentre noi al di qua, dentro l'abitacolo.
E mi sono resa conto che di fronte a ogni essere umano c'è una scelta. Nella busta numero 1: passare la vita a cercare il filtro meno invadente, quello che ci infastidisce meno, che ci sembra distorcere meno la realtà, anche se per usarlo dobbiamo deformarci o assumere pose buffe, ridicole, limitanti. Pulire costantemente il vetro con il lavacristalli,  o pagare qualcuno perché ce lo pulisca, mentre noi stiamo dentro, protetti e al sicuro.
Nella busta numero 2: uscire dall'abitacolo, e prenderci la pioggia in testa. Anche le cacche di piccione. Ma oltre agli inesorabili inconvenienti potremmo arrivare a vedere il sole, la rugiada e sentire profumi e fruscii di foglie. E incontrare pure degli altri esseri umani.
Anzi, se usciamo dall'abitacolo, diventiamo parte della realtà, di quello che c'è, bello e brutto, invece di continuare a ritenerci altro. E poi se ci va, possiamo pure risalirci in macchina e farci dei tratti più o meno lunghi con passeggeri diversi, ma sapendo che la realtà è un'altra cosa. Che noi siamo un'altra cosa rispetto all'essere che sta dietro al volante.
E io non voglio giudicare se c'è una scelta migliore dell'altra. Io la mia l'ho fatta. Non so con quali risultati, cause just time will tell.
L'unica cosa che vorrei è che non facessimo i furbi, dicendo che il contenuto delle buste ci è stato nascosto. Solo questo, poi ognuno scelga ciò che vuole.


E invece, parlando di cose utili, ma da chi si va a farsi riparare un tergicristallo? Elettrauto, carrozziere, autofficina, benzinaio, concessionaria?


mercoledì 31 ottobre 2012

Protect me from what I plan

L'Appeso e l'Eremita. Un giorno l'uno, un giorno l'altro. E l'Arcano senza nome che si intervalla.
Ovvero: accumulo attesa discernimento, e poi azione netta.
Vado a meditare per qualche giorno. Ho fatto tutte le cose che dovevo fare prima di partire, e ho già programmato tutto per il rientro. Perché sono una brava Vergine, ansiosa, figlia prediletta del mio tempo in cui tutto va pianificato incastrato indirizzato a scopi precisi e possibilmente redditizi.
Ma in realtà magari rientro e sono diventata per davvero un samurai.
Kiai!
Ovvero: ma che ne sai?

martedì 30 ottobre 2012

Lezione di grammatica: le persone del verbo

Oggi ho scritto ad un amico che la mia sensazione dominante in questo periodo di crisi economico politica culturale individuale è la voglia di urlare "ridatemi il mio futuro".
Volevo poi scriverlo come status su Facebook, ma ci ho ripensato, senza chiedermi perché non lo facessi.
Ora mi è chiaro. Non l'ho scritto perché ormai lo so: non c'è nessuno da biasimare. Quel voi con cui me la prendo è solo un'altra manifestazione dell'io. Dell'ego, per la precisione. 
L'ego che si attacca a ogni ombra che vede passare. L'ego che crede a tutto e contemporaneamente non crede a niente, perché non sente niente realmente, ma immagina tutto, intellettualizza tutto. L'ego che maschera la vigliaccheria con la presunzione. L'ego che non vuole cambiamenti. L'ego che scende a compromessi. L'ego per cui il sacrificio e il senso di colpa sono encomiabili gesti di pubblica salutare doverosa umiliazione. L'ego che scegli i simboli del potere, invece del potere reale della scelta. L'ego che sempre scusa me, e sempre accusa gli altri. L'ego che sempre accusa me per paralizzarmi. L'ego invidioso mentre disprezza. L'ego che dà, solo se può ricevere qualcosa in cambio. L'ego che si finge modesto e non osa dire "io voglio". L'ego che preferisce morire in vita piuttosto che assumersi responsabilità. L'ego che dice di amare solo per paura di restare solo. L'ego che ipotizza futuri che in realtà sono vomiti di passato. L'ego che vuole compiacere, perché rischiare di essere felici è troppo complicato da gestire. L'ego che ama la sicurezza che deriva dal ripetere continuamente gli stessi errori. L'ego che trova pretesti per rimandare il fare e continuare a pensare. L'ego che mi fa arrivare a sera stremata. L'ego geloso e paranoico. L'ego avido e truffatore. L'ego che vuole marchiare a fuoco ogni cosa con il suo nome, per poi buttare via tutto quando servono cura e attenzione. L'ego che pensa che la foto qui sotto non andrebbe postata, anche se mi piace, perché è sconveniente dire che mi piace e che anzi mi piacerebbe aver posato come modella. 
Voi con cui me la prendo, siete me. E questo, ripeto, lo sapevo. Quello che non sapevo, o non abbastanza, o che un ego più prepotente degli altri mi aveva fatto dimenticare, è che se Kurt Cobain disse: "Voi mi odiate? E io per dispetto vi amo tutti", ecco, io vi amo, miei ego. Perché siete fragili e finché qualcuno non vi ama, continuerete a protestare e chiedere udienza e tormentarmi. Io vi amo, e amandovi, vi farò crescere, come da migliore tradizione pedagogica. 
Non temete, miei piccoli ego, ci sono io per voi. Diventeremo uno. E inventeremo una grammatica diversa. In cui tu non esclude io, noi non taglia la gola a voi,  essi si incontrano con ella danzando. In cui io esiste, mescolato con il mondo, invece che recluso e fatto a pezzi nella testa. 





lunedì 29 ottobre 2012

Parole in prestito, di nuovo.


Se ti pieghi ti conservi,
se ti curvi ti raddrizzi,
se t'incavi ti riempi,
se ti logori ti rinnovi,
se miri al poco ottieni
se miri al molto resti deluso.
Per questo il santo preserva l'Uno
e diviene modello al mondo.
Non da sé vede perciò è illuminato,
non da sé s'approva perciò splende,
non da sé si gloria perciò ha merito,
non da sé s'esalta perciò a lungo dura.
Proprio perché non contende
nessuno al mondo può muovergli contesa.
Quel che dicevano gli antichi:
se ti pieghi ti conservi,
erano forse parole vuote?
In verità, integri tornavano.

Lao-tzu


sabato 27 ottobre 2012

Obiezione di coscienza

Tutte le disgrazie di un uomo derivano da una cosa sola, che è il non sapersene stare seduti da soli in una stanza.
Blaise Pascal
Arrendersi alla realtà come quando ci sdraiamo su un letto soffice con tutto il nostro peso, o come quando stavamo in braccio alla nostra mamma. O come quando il mare che sembrava inizialmente gelido, ci avvolge tiepido e luminoso. O quando respiriamo affannati e sfiniti dopo aver fatto l'amore. 
L'unico sforzo che davvero dobbiamo fare, è astenerci dal fare, e concederci l'abbandono. Non esistono nemici, la realtà ci sostiene, se abbiamo fiducia. 
Io guerre alla realtà non ne dichiaro più. Tanto le ho perse tutte, anche quelle che mi sembrava di aver vinto. Perché l'unica azione che non fa danno né a me né agli altri, è quella che nasce spontanea, vigorosa, piena, potente dall'abbandono totale. 
Sembra contraddittorio, ma non lo è. 


giovedì 25 ottobre 2012

A proposito di Una vita nel teatro ovvero l'umanità

"La bravura in teatro è la capacità di dare.
L'attore eccelso non è colui che si sforza di stabilire, di codificare, ma colui che crea per il presente, liberamente, senza fermarsi a rivendicare il valore di ciò che ha appena fatto o ad ammirare compiaciuto la creazione. [...]
Una vita nel teatro è una vita spesa ad elargire.
È una vita mobile, instabile, in cui non si è sicuri né di trovare lavoro né di trovare consensi.
Il futuro dell'attore è reso incerto non solo dal caso, ma dalle necessità, vale a dire intenzionalmente [...]
L'abilità si acquisisce con una pratica costante e proviene da miglioramenti così modesti che sembra di non star facendo alcun progresso. L'abilità si perde allo stesso modo, dando per scontate abitudini conquistate a duro prezzo senza rendersi conto che ci stanno abbandonando. Al termine di uno spettacolo, alla fine di una stagione teatrale, l'unica creazione che rimane all'attore è la propria persona.[...]
Abbiamo tutti bisogno d'amore. Abbiamo tutti bisogno di svago e di amicizia in un mondo in cui la durata di un impegno fra noi e gli altri (un impegno peraltro intensissimo) si limita per lo più alla durata delle repliche dello spettacolo.
Dice Camus che l'attore è un ottimo esempio per capire che la natura umana è una fatica di Sisifo.
E' sicuramente vero, e non è certamente una novità, ma c'è qualcosa che voglio aggiungere: la vita che si svolge in un teatro non deve per forza essere considerata un'equivalente della "vita". È vita."

tratto da David Mamet, Note in margine a una tovaglia. Scrivere (e vivere) per il cinema e per il teatro.


mercoledì 24 ottobre 2012

Senza titolo.

Quando inizi a dare per certo di aver capito delle cose, è proprio in quel momento che smetti di averle capite.
La comprensione dura un attimo, l'attimo dopo è già tutto diverso, se tenti di rimanere appeso a quello che avevi capito un attimo prima per sentirti sicuro, rischi di impiccartici con le tue certezze.
La mia amica Silvia mi direbbe: iotelodico, me lo dice sempre a mo' di avvertimento. Io mi dico: iomelodico.



martedì 23 ottobre 2012

Sarei stata partigiana? Ovvero riflessioni sulla vigliaccheria

Mi è capitato spesso di chiedermi cosa avrei fatto se fossi vissuta negli anni della Resistenza. Sarei stata partigiana? Sarei stata fascista? Sarei stata neutrale e quindi concentrata solo sulla sopravvivenza mia e della famiglia?
Non lo so, e non posso giudicare le scelte fatte dai singoli esseri umani che si sono ritrovati a vivere in quell'epoca (che prendo ad esempio perché è quella più vicina a noi ad aver condotto moltissime persone verso scelte di campo vere, senza tentennamenti, pericolose). Posso guardare la storia con i miei occhi di adesso, occhi formati (deformati in qualche senso) anche dalla conclusione della guerra, dalla Storia che ne è seguita, dalle storie che mi hanno raccontato, e concludere che mi sarebbe piaciuto essere partigiana, sebbene sappia che anche i partigiani usavano le armi, che non amo, e hanno compiuto nefandezze. Le cose umane sono spesso sporche, ma considero preferibile sporcarsi le mani che tentennare sempre.
Ma la cosa a cui penso di più oggi, e che mi ha portato a scrivere questo post è che alla fine quello che conta nelle scelte che contano è restare fedeli alle consapevolezze acquisite.
Vale a dire: se mio nonno una volta acquisita la consapevolezza che il fascismo era una merda, si fosse iscritto al Partito Fascista solo per mantenere più agevolmente la famiglia, lo considererei un vile.
Se invece il suo vicino di casa non raggiunse tale consapevolezza, per educazione indottrinamento obnumilamento lungo un ventennio, e decise di scendere a patti con il regime fascista perché doveva provvedere a 8 figli, non saprei cosa imputargli.
Ognuno ha degli strumenti a disposizione per conoscere il mondo e meno ne vengono forniti, meno ne saprà cercare da sé, e non potrà evolversi verso gli stadi più alti della vita, quelli meno governati dalle cose materiali. (Corollario di questa frase è la scarsa importanza data all'educazione reale degli esseri umani in Italia: gli esseri formati sono pericolosi perché rischiano di diventare liberi. Ma qui divaghiamo).
Ma se per esempio io scopro cosa funziona e cosa non funziona nella mia vita, mi redigo una mentale lista delle cose che devo fare e delle cose che non devo fare (e non perché qualcuno mi impone o vieta di fare qualcosa, ma perché capisco che sono la via per la mia personale felicità e perché voglio essere aderente a me stessa), se poi questa lista non la seguo perché troppo impegnativa, sono una poveraccia.
Perché voler tornare indietro dalle consapevolezze acquisite è l'atto più vigliacco che si possa fare.


sabato 20 ottobre 2012

Seguire Wilfred ha delle conseguenze.

Gli uomini hanno un solo obbligo, diventare liberi.
Visto che è troppo pesante, se ne inventano mille altri: diventare ricchi, essere fedeli, non arrabbiarsi, essere buoni o talmente potenti da poter essere stronzi, andare in palestra, non scaccolarsi in pubblico e meglio nemmeno in privato, abbinare bene i colori, inventarsi app per l'iPhone, denigrare i tifosi di altre squadre o partiti politici, aspettarsi premi o punizioni per i propri comportamenti invece di fare quello che davvero vogliono.
All'aumentare del grado di civilizzazione (supposta), aumentano le regole da seguire. Ce le insegnano da bambini, per rendere possibile la convivenza e non rompere i coglioni agli adulti che se danno retta ai bambini gli viene voglia di diventare liberi, e poi per tutta la vita pensiamo che siano lo scopo e non un mezzo per raggiungere il vero scopo: la scoperta di noi stessi, e quindi degli altri in relazioni vere.
Finiamo per essere dei perfetti cani domestici. Inappuntabili da mostrare in società, svuotati degli istinti vitali e con un'intelligenza mal indirizzata verso cose stupide che ci conducono all'infelicità.
Che triste sorte, bau bau. (sottovoce).


venerdì 19 ottobre 2012

Priorità

"No, scusa, non possiamo vederci in questi giorni. Seguo progetti importanti: cerco pezzi di metallo per il mio nido come una gazza ladra, e nel tempo libero inseguo la mia coda come un cane con difetti nel corredo genetico.
Scusa davvero, ma non posso."



lunedì 15 ottobre 2012

Ciascuno a suo modo

In that case, I’ll miss the thing by waiting for it
Franz Kafka

Nietzsche. Leggerlo è ultimamente il mio modo per non illudermi di poter vivere una vita tranquilla. Mi do le cose che mi servono, mi voglio bene, cerco soldi casa lavoro coltivo amore amicizie rispetto e tutto ciò che mi piace.
Ma non voglio, e qui decido da me la mia lieta condanna, pensare di avere la coscienza apposto, di aver svelato il mio mistero, di aver capito quel che c'è davvero da capire solo perché le contingenze della vita  in questo momento, che tanto sarà breve, giocano a mio favore.
E' difficile da accettare anche per me, ma chi sono io per rifiutare la mia natura?



venerdì 12 ottobre 2012

Perché non voglio credere a niente.


"La realtà è quella cosa che, anche se smetti di crederci, non svanisce."
"Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare le persone che devono usare le parole."

How To Build A Universe That Doesn't Fall Apart Two Days Later, Philip K. Dick

Stamattina ho letto la prima delle citazioni che leggete qui sopra, poi ho trovato anche l'altra e ho pensato che dalla fantascienza arrivano delle cose pazzesche. Ma soprattutto ho pensato a quante energie spreco e blocco per credere, invece di lasciarle fluire nella realtà.
Convincimenti, ipotesi, opinioni, progetti. Addirittura spesso quando medito sento talmente poco la realtà del mio respiro e ho un tale bisogno di controllare che sto davvero respirando, che finisco per andare in ansia. Allora accetto la mia ansia, e questa svanisce. Ma la cosa stupefacente è che di fronte all'evidenza che respiro, ancora non lo percepisco come un fatto reale.
Ho bisogno di credere. Tutti noi esseri umani abbiamo bisogno di credere. E allora abbiamo inventato gli dei, la religione, la politica e il calcio. Addirittura abbiamo inventato la finanza, e i capovolgimenti mentali necessari per credere alla finanza sono pazzeschi. E in effetti questa tremenda invenzione cambia le nostre vite, quelle che crediamo essere la realtà delle nostre vite. Qualcuno diventa mega ricco, mentre tutti gli altri si impoveriscono e fanno vite miserevoli credendo di essere davvero poveri, o da meno rispetto a chi ha creduto talmente nella finanza da accumulare cose che non gli sopravviveranno. 
I faraoni avevano talmente bisogno di credere di essere faraoni da mettere i loro beni nelle loro tombe, caso mai qualcuno si dimenticasse di chi erano stati.
Ma potremmo fare benissimo a meno di tutto ciò, se ci arrendessimo alla realtà. 



giovedì 11 ottobre 2012

Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Non sono stata creata, se sono stata creata, per scegliere tra Alfano e Berlusconi, tra Bersani e Renzi, tra la Minetti politica e la Minetti cantante, tra l'iPhone e il Galaxy, tra la Punto e la Jaguar, tra la crisi del capitalismo e il modello cinese, tra sfruttare ed essere sfruttata, tra amare uno solo e odiare tutti, tra cosechesifanno e cosechenonsifanno.
Fuori c'è la prima nebbia milanese. E io sono viva. E voi lo siete. Ma non chiedetemi altro. Che se non sa rispondere Montale, perché dovrei esserne capace io?



mercoledì 10 ottobre 2012

C'è sempre un momento giusto per fare qualcosa. Ora.

Sto scrivendo un racconto. Perché ne ho voglia. Ed è l'unico modo per sopravvivere, fare quello che si ha voglia di fare, in mezzo a quello che si deve fare.
A volte sbalordisco per la mia stessa saggezza. E sempre sbalordisco per la mia capacità di ribadirmi continuamente le stesse cose senza mai crederci fino in fondo. Sono un pozzo di saggezza, senza fondo. 


martedì 9 ottobre 2012

C'è una crepa in ogni ragionamento, è da lì che entra la luce. O forse esce.

Ieri ragionavo sul fatto che i bambini imparando a parlare non riescono a non credere nell'assoluta identità tra un oggetto e il nome che lo designa e che sentono ripetere continuamente. Si sforzano tantissimo nell'impresa di impossessarsi del mondo, di far coincidere il prodotto del loro apparato fonatorio al mondo. E pure si sforzano per sentirsi dire bravi dai genitori, e si illudono che quando parleranno gli altri finalmente li capiranno. Ma non sanno che in realtà ci sono molti modi per dire una cosa, e non solo perché esistono tante lingue. E perdono pian piano il loro potere magico di creare il mondo, perché ne accettano uno che gli viene già dato, e non inventano più altri modi per chiamarlo/ricrearlo.
Ad esempio oggi pensavo di essere sveglia, e poi invece ho aperto gli occhi aperti e ho visto che stavo su una fune. E nessuno mi ci aveva messo, ci stavo, ci sto. E ho tre possibilità: A. sperare in un colpo di vento o in qualcuno che tagli la fune e così cadere (non mi piace) B. tornare indietro C. continuare ad andare. Visto che le possibilità di cadere sono uguali sia tornando indietro che proseguendo, andrò avanti.
E per concludere:

Quello che non affronti, si ripresenta.
Quello che cerchi, lo stai già trovando.
Quello che non fai, non esiste.
Quello che ti fa paura, è la cosa da fare.
Quello che ti rubano, te lo devi riprendere.
Quello che vuoi riprendere, non è detto che tu lo debba rubare a tua volta.
Quello che riprendi, lo puoi nascondere, oppure regalare.
E infine, molto importante: quello che ancora non hai, non potresti regalarlo. Ma quando lo regalerai, allora ce l'avrai.



sabato 6 ottobre 2012

Banalmente, i milanesi ammazzano il sabato

Oggi ho fatto un sacco di foto. Fare foto mi consola. Non so precisamente da cosa, dal mondo che mi sfugge di mano probabilmente. Mi aiuta a osservare, a stare ferma, a stare nel mondo. 
Ho pensato spesso ultimamente di essere autistica, anzi, che tutti in qualche forma lo siamo, per due motivi. Il primo è che pirandellianamente viviamo solo nel nostro mondo e comunicare davvero con gli altri è impossibile, il secondo è perché il mondo sa essere così faticoso, che se anche qualcosa ci arriva, spesso sarebbe meglio non averne nessuna notizia. E allora l'autismo è una salvezza.
Soprattutto a Milano. 

Brenta, supermercato.
Tutti sbuffiamo, cespo di lattuga compreso, pensando "Ma non ci puoi venire in un altro momento a fare la spesa?", e per la rabbia che siamo borghesemente tenuti a mascherare, ci facciamo piccoli dispetti con i carrelli e ci guardiamo male per un tubetto di dentifricio in sconto. E non salutiamo. Io sì, ma mi devo sforzare. Oggi mi dovevo sforzare. 

Duomo, pomeriggio
Sembra la festa di paese, solo un paese grande. Manifestazioni ogni 3 passi, senza grazia gusto e senso. NBA, Virgin Activ, corso di Tai Chi, temporary shop del biologico con Marco Columbro testimonial in foto e in presenza, Hare Krishna e intagliatore di rape e carote. Pensandoci bene gli ultimi due mi piacciono, ma è il contesto. Non so. Tutti felici a comprare, tutte con le sneaker con la zeppa di Isabel Marant e simil-tarocche. Che però nel resto di Europa si vendevano l'anno scorso... 
Non so, un sapore di provincia, senza i benefici della provincia. E io dalla provincia me ne sono andata per scelta. 

Via Torino, crepuscolo
Passeggio con un amico, che sta per altro cercando di dirmi una cosa seria, mentre io mi sforzo per resistere all'autismo che mi dice: "Chiuditi, è per il tuo bene" Di fronte a me, tra la calca, una ragazza e una donna si trovano a dover superare lo stesso punto del marciapiedi in due direzioni opposte. Tipico momento di imbarazzo e finte alla Neymar, che si concludono con la signora che urla con pesante accento milanese "Ma allora, ti vuoi levare dai coglioni, sì o no?". La ragazza si arrende e le cede il passo. Le sorrido e tento di scambiare due parole, ma non è molto per la quale nemmeno lei. Se ne va. 

Corso Lodi, sera
In bicicletta, provata dal pavé, sento un rumore forte e un urlo, mi giro spaventata. Ma è una signora tirata a lucido e ingioiellata per il sabato sera, che scende dalla Smart urlando "Ma proprio un marito coglione doveva capitarmi?" rivolta al conducente, presumibilmente il suddetto coglione. Sbatte lo sportello, sbatte i tacchi a terra, rischiando pure di romperli considerata la stazza, e si avvia verso la libertà. Ma arrabbiata. E che libertà c'è nella rabbia?

Corvetto, adesso
Bestemmie e insulti dal palazzo di fronte. Sul principio ho pensato fosse una litigata, ma forse è per una partita. E' peggio di quanto pensassi. La gente è banale. Anche io sono banale a dire che la gente è banale, ma è così. Perché? Perchè? Io mi annoio. Mortalmente. 

E ora che faccio, lascio entrare l'autismo e resto a casa o esco e provo a uscire senza sbronzarmi per dimenticare?

venerdì 5 ottobre 2012

La ragione ha dei torti che il cuore non conosce

Ieri sera sono uscita. Stanotte ho dormito. Questa mattina sono uscita e al bar dove ho chiesto il primo caffè della giornata, che non lo bevo mai appena sveglia, alle ore 11:20 stavano preparando un gin tonic.
Dai sobbalzi del mio stomaco, ho capito con certezza che ieri sera avevo bevuto troppo. (Ma il gin mi fa schifo sempre, ve lo dico così che non vi venga l'idea di offrirmelo.)
E mi sono ricordata che ieri sera mi sono infilata in una discussione sul concetto di identità.  Discussione che era inficiata in partenza da due errori:
1. discutere con alcool in corpo significa far parlare l'alcool al posto mio.
2. discutere per avere ragione è il modo migliore per sragionare.
Io non voglio discutere.
Io non voglio avere ragione. Perché se voglio avere ragione, voglio ancora convincere me stessa di qualcosa.
Io voglio sapere. Sapere che rifiutare il concetto di identità non significa volermi disincarnare. Significa rifiutare i miei ego. Significa vivere a un livello più profondo e indiviso. Significa sapere che le molecole che mi compongono cambiano sempre. Significa sapere che Pirandello aveva ragione. Significa sapere che quello che voglio o non voglio ha più a che fare con condizionamenti che con il nucleo di me. Che certo, esisto, ma non sono ciò che dico che sono. E capisco che tutto ciò non lo so spiegare, e soprattutto non lo voglio spiegare.
Ma cazzo, anche solo scrivere queste cose in questo modo in questo luogo blandisce il mio ego, sto ancora provando a convincervi/mi. Non posso fare a meno di parlare di identità, ma non posso identificare cosa sia l'identità, perché entro in contraddizione con la mia intuizione che l'identità sia più inutile che utile. Quindi la smetto, e vado a meditare. Ma sebbene mediti, non definitemi buddista.


giovedì 4 ottobre 2012

La distanza ovvero metafore sull'amore (dove forse eccedo in retorica)

Mi interrogo da molte lune sull'amore. E per amore intendo l'amore per un altra persona, che possibilmente ha i suoi vertici nell'amore di coppia, nell'amore per i figli e nell'amicizia vera, ma che per quanto mi riguarda - e, scusate se sono presuntuosa, dovrebbe riguardare anche voi- ha a che vedere con tutte le relazioni umane.
La risposta di questi giorni è che l'amore c'entra con la distanza. Ne ho già parlato in altri post, ma adesso l'immagine si è fatta più precisa. Amare una persona significa percorrere e ripercorrere con pazienza, attenzione, delicatezza, la distanza che ci separa da lui o da lei. E consentirgli di fare lo stesso. E perdonargli gli errori nel tragitto, e perdonarli a noi stessi.
E sapere che questa distanza non sarà mai colmata, se non a rischio di mangiare l'altro o farsene mangiare. E che nemmeno sarà possibile dirgli sempre: fermati lì. Bisogna farlo arrivare, e permettergli di tornare indietro. Serve arrivare e tornare sui nostri passi.
Percorrere e ripercorrere, appunto. Osservando l'effetto delle stagioni sul paesaggio, stando attenti a come posiamo i piedi per non farci male e non farne, superando gli ostacoli senza ricorrere alla dinamite.
Scoprire che ogni volta il percorso che facciamo è diverso. Un po' uguale, certo, ma sempre diverso. E dove prima c'erano pianure, potremmo trovare montagne rocciose, o dove c'era l'oceano con le sue onde, un placido lago di montagna.
Per amare davvero non si può stare fermi o distratti. Per vivere nemmeno.


mercoledì 3 ottobre 2012

Pensieri dell'età adulta



Credere che “Io sono colui che fa” è come il morso di un velenoso serpente.
Realizzare invece che “Io non faccio niente” è il delizioso nettare della felicità.
La sola comprensione che di essere solo Pura Consapevolezza brucia la foresta dell’ignoranza.
Sii oltre le illusioni e sarai felice.
Senti l’estasi, la suprema beatitudine nel momento in cui realizzi questo mondo essere irreale proprio come quando scopri che quello che credevi un serpente è in realtà una semplice corda; sappi questo e sii felice.
Se tu pensi di essere libero, allora sei libero. Se tu pensi di essere vincolato, allora sei vincolato. E’ giustamente detto: tu diventi quello che pensi.

Ashtavakra Gita

Mutuo, progetti, accatastamento C3, doppi servizi, insegnare, set, uomo, donna, possesso, libertà, scuola, arte, figli, madri, padri, ragni, Milano, Palermo, India.
Libri delle superiori, Gopro, bollo auto, direttore di banca, multa, contatti, outfit giusto. Ascesi. Eugualeemmecidueallaseconda.Carne e spirito. Materia è spirito. Spirito e ironia. Ironia e serietà.
Serietà. Adulti. Pesantezza. Irreale.
Il reale è irreale. Ma ci devo nuotare.

martedì 2 ottobre 2012

Beauty follows love

Cazzo.
Oggi sono arrabbiata, anzi da ieri sera, anzi da sabato sera che sono andata ad una specie di mostra di creativi. Perché non capiamo che non solo abbiamo bisogno di bellezza, ma che la meritiamo.
E invece lasciamo che gente meschina ci costruisca attorno case brutte, scatti brutte foto, inventi oggetti brutti, disegni vestiti brutti, ci faccia lavorare in uffici brutti. E sono meschini perché non sanno creare bruttezza anelando alla bellezza, come una tensione creativa vera dovrebbe fare. Non hanno gli occhi per la bellezza, non ne hanno il ricordo da nessuna parte. Sono meschini perché si accontentano di quello che conoscono già, di una miserevole bruttezza.
E non soddisfatti, ce la regalano, pensando che pure noi siamo così meschini da non saper vedere oltre. Sapete una cosa? Tenetevela. Io vado fuori a cercare bellezza. O me ne resto anche in casa, che è orrenda, ma mi sforzo di amarla e curarla come fosse bellissima, e diventa bellissima.
Ecco, voi non amate la bruttezza, per questo non sapete renderla bella. Vi limitate a rappresentarla, specchiandovi dentro, così nella bruttezza riuscite a vedervi belli. Ma la verità è che non non amate nemmeno la bellezza, altrimenti tutto quello che fate sarebbe bellissimo.



lunedì 1 ottobre 2012

Scrivere dello scrivere un curriculum.


Che cos'è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
è bene che il curriculum sia breve.
È d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenenza a un che, ma senza perchè.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.

Wieslawa Szymborska

domenica 30 settembre 2012

Imago Dei

Leggo notizie come questa, e sono certa che Dio Allah JHVH e gli altri dei si vergognano di essere così come li abbiamo immaginati. Potremmo inventarci degli dei migliori, degli dei che non si debbano vergognare di essere come sono.
Potremmo inventare degli dei che non ci assomiglino così tanto.
Potremmo diventare degli uomini veri, che assomigliano al dio (sono il dio) che abbiamo dentro, che rispetto agli dei a cui abbiamo dato un nome, esiste.


venerdì 28 settembre 2012

Le più varie ispirazioni

Dicevo a Daniela che ho i pensieri annodati talmente stretti e le sensazioni così confuse da non riuscire a scrivere niente di sensato sul blog, e lei mi ha risposto che non era obbligatorio farlo.
Sì, ma a me consola scrivere, replico. E lei: e allora scrivi cose non sensate, tanto è il tuo blog e puoi scrivere quello che ti pare.
Ecco fatto.
Del resto non c'è nessuno da compiacere, nemmeno voi, cari lettori.

Oddio! La banalità

Pensavo oggi mentre tra un rendering e l'altro mi distraevo e fumavo sigarette e facevo l'acrobata, e in generale penso ultimamente mentre sto stretta tra l'esigenza di lavorare per avere dei soldi e lo stare accorta per evitare di farmi stritolare dal sistema che vuole tutta la mia vita e i miei pensieri e vuole rendermi potente per accrescersi lui stesso, pensavo che i momenti felici della vita sono interstiziali.
Sono come un pezzo di mela che ti si infila in mezzo ai denti, ma l'effetto invece che fastidioso è piacevole. Ma in entrambi i casi ti accorgi che qualcosa di strano sta succedendo. O perlomeno ti accorgi che sei viva, sia con la buccia infilata sotto la gengiva, sia quando sei felice.
Come mangiando la mela vuoi solo goderti il frutto, o al massimo la mangi perché t'hanno detto che ti fa bene e quindi segui scrupolosamente ciò che ti dicono, così vivendo con consapevolezza e pienezza e senza pensare, a volte capita che un pezzetto di vita ti renda estremamente felice. Senza scopo né preavviso né intenzione.
L'unica differenza tra i due termini del paragone è che la felicità non devi nemmeno prenderti la briga di rimuoverla con l'unghia. Se ne va da sola. Perché se anche riuscissi a trattenerla, marcirebbe e ti farebbe venire le carie.
Quindi, accorgitene quando c'è, non chiederti come sia finita lì, e non rimpiangerla quando se ne sarà  andata. L'unico modo per riaverne è continuare a vivere.



lunedì 24 settembre 2012

Stretta alla realtà

Sto convertendo dei file, per poi mettermi a montare un video. Che ho girato un po' così, con la testa ad altre mille cose e a finti problemi e alla paura di non essere capace, mentre tutto andrebbe sempre fatto con piena consapevolezza.
E mi viene in mente, mentre faccio mangiare a Mpeg Streamclip un file dopo l'altro, una cosa successa quest'estate mentre lavoravo in colonia. E ve la voglio raccontare, se la volete leggere.
Durante una passeggiata in montagna, avanzavo con un piccolo gruppo di ragazze che a turno mi raccontavano delle loro famiglie: fratelli sorelle genitori casa età e dettagli quasi degni di un censimento, da cui mi illudevo di ricavare un'immagine accurata delle loro esistenze.
Ma poi una ragazza, sudamericana con forte accento latino, mi dice Io ho due sorelle, mio papà se ne è andato e mia mamma lavora in banca. Io la guardo strano, ma mi recupero velocemente perché mi accorgo di essere una razzista senza via di scampo che crede impossibile che una latina possa lavorare in banca. E lei, stretta nella sua felpa blu elettrico, prosegue: Fa le pulizie alla sera, e le danno sempre qualcosa in più, perché lo fa bene. Quando torna a casa ci dice che lì, in banca, le persone lavorano duro tutto il giorno, e che lei pulisce bene, perché si trovino meglio. Che le persone devono stare bene quando lavorano.
E allora come adesso, mi viene la pelle d'oca. E vorrei stringere questa donna, le sue figlie, e imparare da loro come vivere. E invece so solo raccontarvi questa storia.


domenica 23 settembre 2012

Sunday morning ovvero ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ

Ti avverto, chiunque tu sia.
Oh, tu che desideri sondare gli Arcani della Natura,
se non riuscirai a trovare dentro te stesso ciò che cerchi
non potrai trovarlo nemmeno fuori.
Se ignori le meraviglie della tua casa,
come pretendi di trovare altre meraviglie?
In te si trova occulto il Tesoro degli Dei.
Oh, uomo conosci te stesso
e conoscerai l’Universo degli Dei.



sabato 22 settembre 2012

Impazzire di luce


Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.

Rileggere Montale. Guardare le foto su Instagram. Scoprire dettagli dimenticati di ieri sera. Sfogliare il libro sul Risveglio. Sentire il cerchio alla testa. Mozart in sottofondo. La stanza disordinata. I vestiti dell'indecisione in giro. Briciole nel letto sfatto.  Decidere di tornare alla sobrietà. Una sigaretta e un chupa chups. Un montaggio da fare. Un posto da raggiungere. Persone da salutare.
Ma quale consistenza ho io? Dove sono? Nessuno porta girasoli impazziti di luce. Ma si possono far crescere. Tocca farli crescere. 


mercoledì 19 settembre 2012

California Gurls, anzi Corvetto Gurls

Ieri ho censurato almeno tre post impregnati di disperazione e sentimento cupo e assoluto di mancanza di senso. Oggi invece un paio di post farciti di rabbia e vendetta, e un altro paio intrisi d'amore e tenerezza e rimpianto.
Cosa dire?
Che a volte nonostante sia consapevole che sia stupido, vorrei vivere nel mondo di questo video, e davvero a volte vivo lì. A volte invece sto nell'inferno di Dante, tutto buio e legge del contrappasso. Che assomiglia un po' a quest'altra canzone. Ma quando esco a riveder le stelle, vado sulle mie nuvole di zucchero filato, e tutto torna apposto.
E posso affrontare il mondo così com'è. Perché alla fine dipende tutto da come guardi le cose, come nelle foto qui sotto. E ciò che conta è farsi del bene, che per me consiste in questo, ormai lo so: drogarmi poco meglio se per nulla, meditare, fare yoga, mangiare e dormire regolarmente, fare le cose che mi piacciono e stare dritta, psicologicamente e fisicamente. Ovvero trovarmi un senso e fare cose, lontana del letto dei pianti e dalle sottomissioni psicologiche.
E solo così posso fare del bene anche agli altri, mica smoccolandomi sulle mie paranoie, che però hanno pure loro dignità di esistere, perché guardandole le scopro e le smonto, e magari mi rivelano punti di vista interessanti.
Alla fine forse il segreto è accettare che Inferno e Candy Paradise possono convivere, nel mondo così com'è.

Ad ogni modo, sempre per il mio compleanno, sono entrati in wish list i coni spara panna montata.