giovedì 28 novembre 2013

Prima persona singolare, sebbene scritto in seconda persona.

A scuola studi le lingue staniere. E se studi abbastanza riesci a leggere articoli, libri, anche seguire film. Ma parlare, parlare una lingua straniera è tutta un'altra cosa. Devi essere pronta, presente, attenta ascoltatrice di te stessa e degli altri. Veloce nel cogliere le sfumature di contesto e di significato, fare attenzione ai dettagli, non puoi permetterti di fare altro contemporaneamente. Devi metterti nella condizione di sbagliare per poter imparare, non puoi stare sempre zitta e sorridere. Devi buttarti.
Per la vita funziona nello stesso modo. Puoi studiarla, analizzarla, filtrarla e rielaborarla e tutta la conoscenza che accumuli in questo modo ti sarà utile. Ma vivere, vivere è tutta un'altra cosa. Per vivere devi buttarti.

mercoledì 20 novembre 2013

Conferme scientifiche

La mia depressione, mai diagnosticata dal prode Rolando il terapeuta più bravo del mondo, (ma invece considerata un dato di fatto da quel mostro della mia migliore amica, e devo dire che probabilmente aveva ragione lei) è definitivamente over.
Perché quando c'è la luna alta in cielo come stasera, la prima cosa a cui penso non è quel pesantone di Leopardi, ma questa canzone.


E per non farmi mancare niente, poi mi canticchio da sola questa:


Quindi magari ora non sono più depressa, ma scommetto che la scientifica definizione che la solita malefica amica dott.ssa Silvia darebbe di me è che sono sono "tutta andata". Ma tutta allegramente andata.

lunedì 18 novembre 2013

Mise en abyme

Ho il desiderio di qualcosa.
Ho il desiderio di qualcosa che sveli a me stessa di che cosa ho desiderio.
Perché ho desiderio del desiderio, amore per l'amore, nostalgia per la nostalgia, mancanza della mancanza.
E non ho desiderio, ho bisogno, di qualcosa di vero, attuale, concreto. Che mi sporchi mani e faccia e mi punga e mi faccia il solletico. Senza parole, senza silenzi. Puro e fuori fuoco, diretto, scomposto, crudele come solo la dolcezza sa essere.


mercoledì 13 novembre 2013

Quanto vale vivere

...dal momento in cui mi hai risposto, ho deciso che tutto quello che mi succede a causa tua ti apparterrà. È-scritto-in-me-ed-è-scritto-in-te. Ogni pensiero, desiderio, passione, timore; ogni creatura, feto o aborto che concepirò a causa tua. È questo il fulcro del mio contratto con te, e solo con te, in virtù del quale rinuncio a ogni tentativo di corteggiamento, rinuncio a censurarmi e, più in generale, al diritto di difendermi...
(Che sollievo scrivere queste parole.)
Ma ecco, ho riletto quello che ho appena scritto.
Come mi piacerebbe scriverti diversamente. Come mi piacerebbe essere uno che scrive in un altro modo. Le mie parole sono così pesanti. In fondo avrebbe potuto anche essere semplicissimo, no? Come quando si chiede "Dimmi, piccino, dove ti fa male?", allora chiuderei gli occhi e scriverei in fretta: volesse il cielo che due estranei vincessero l'estraneità.
Il principio stesso dell'estraneità, carico di prescrizioni e conseguenze - il vertice del Cremlino, soddisfatto e sazio, che ci si è assestato nelle profondità dell'anima. Come vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un'iniezione di verità per dirla, finalmente, la verità. Sarei felice di poter dire a me stesso "Con lei ho stillato verità". Sì, è questo quello che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anche io lo sarò per te, prometto. Un coltello affilato ma misericordioso - parola tua. Non ricordavo nemmeno che fosse lecita. Un suono così delicato e ovattato. Una parola senza pelle (se la si ripete più volte a voce alta ci si può sentire come terra riarsa, e non è facile il momento in cui l'acqua s'infiltra fra le crepe). Sei stanca, mi obbligo a dirti buonanotte.

D. Grossman, Che tu sia per me il coltello


Da qualche giorno accumulo idee per un post sul blog, ma tra viaggi e lavoro non ce l'ho fatta.
E poi non avevo la chiave di volta, il perno su cui far ruotare queste idee che mi giravano in testa.
Poi stasera i miei "genitori" inglesi mi hanno fatto leggere una cosa, una di quelle catene che dice: Se hai più di 30 anni allora capirai che...
E via di esempi di merende a pane e marmellata, di bacchettate a scuola, di cadute dalla bicicletta che si concludevano con tua mamma che dopo averti medicato ti menava invece che con la corsa dall'avvocato per fare causa al comune per la buca nell'asfalto ecc ecc.
Ora, la nostalgia c'entra poco. Sono figlia degli anni 80 e nella mia vita non mi è successo niente di grave, eccetto nascere con una sensibilità eccezionale che ha trasformato in mostri cose da ogni giorno.
Il punto centrale è: soffrire è meraviglioso. Fare fatica. Attraversare tutto. Buttarsi sotto la doccia fredda, camminare sulla sabbia bollente. Accettare che tutto quello che arriva è sempre e solo per il meglio. Provare a cambiare le nostre risposte automatiche. Accettare che quando sei nato non puoi più nasconderti. Riconoscere che mi sono sradicata per radicarmi, che ho corso lontano per ritrovarmi, che ho aperto misteri solo per ritrovarmi a scoprirne altri, più preziosi, che ho camminato a testa in giù per accorgermi che era la posizione giusta.
Siamo tutti spaventati dalle difficoltà, dalla fatica. E controllare le vita quotidiana con cibi più sterili e (presumibilmente) più salutari, leggi e regolamenti, routines e piani per un futuro di successo, ci sembra un'ottima via di fuga.
Ma il nostro vero spavento, la nostra vera minaccia è sempre lì, e rischiamo di ritrovarla uguale a 80 anni.
La nostra vera minaccia siamo noi stessi, la nostra parte che non vogliamo guardare. La nostra metà oscura, in cui vive urla e strepita il nostro bambino ferito. Perché tutti siamo (stati) bambini feriti.
E l'unico modo di farci pace con questo bambino ferito non è regalargli le caramelle e distrarlo, ma trovare il coraggio di farlo piangere e consolarlo. E portarlo in giro con noi. E amarlo, nonostante la vergogna e il fastidio che ci provoca. E lasciare fare a lui. Che ci dirà quanto un frutto appena colto è meglio di un succo, un bacio meglio di un messaggio d'amore, una caduta dalla bici meglio di un pomeriggio davanti alla PS3.
Che dal dolore di questo bambino sgorga pura la vita nuova.
Eppure, ancora questo post non ha un gran senso, è solo un accumulo di cose. Ma se devo rispondere alla domanda che mi sono posta nel titolo, direi che vivere vale tutto, solo se è vivere più forte, non più a lungo.



domenica 3 novembre 2013

La migrazione dei pensieri - Un post mal miscelato sulla mescolanza.

Ho scritto ieri una cosa, e continuo a credere che sia vera: non bisogna lamentarsi. Non ad alta voce, e preferibilmente nemmeno tra sé e sé. Se possibile bisognerebbe astenersi dal lamentarsi anche del maltempo.
Noi siamo in gran parte il prodotto dei nostri pensieri, e se non li controlliamo o perlomeno monitoriamo, ne restiamo fottuti. Finiamo con il costruire un mondo orribile e vedremo persone orribili e vivremo una vita orribile, ovvero renderemo reale l'esatto specchio delle nostre lamentele.
Ma ciò mica significa che tutto vada bene.
Per esempio, in questi giorni in cui sono un po' provata dallo stare lontana dalla mia vita "normale" e soffro la provincia inglese, penso che questa cosa dell'allontanarci dalla nostra normalità sia in assoluto la prova più challenging and rewarding da fare nella vita. Tanto che, se fosse per me, dovrebbe essere obbligatorio.
Pensavo per esempio a chi dice che i migranti, se non stanno bene nel loro nuovo paese, avrebbero potuto stare a casa loro. Che poi chi lo dice sono persone, che io, dal fondo dei miei stereotipi, immagino elettori della Lega, che se vanno all'estero (generalmente a Sharm el Sheik e comunque non ci vanno sotto minaccia della guerra o della mancanza di cibo per i propri figli) si lamentano degli spaghetti scotti.
O pensavo a chi si lamenta di non riuscire a capire l'italiano di un migrante, e magari non lo capisce perché lo straniero usa i congiuntivi, mentre lui maneggia un dialetto travestito da italiano. O a chi si lamenta degli odori di cibo straniero nelle proprie scale. Non solo non hanno mai provato che cosa significa avere in bocca una lingua che non riesce a dire quello che vuole dire e nel cranio un cervello alieno e nelle narici altre consuetudini, ma non hanno nemmeno provato a pensarci.
E pensavo che quelli che hanno paura della contemporanea mescolanza, non riescono a pensare che le lingue, tutte le lingue, portano in sé i segni della millenaria mescolanza. Così come le cucine e il nostro sangue e la nostra tecnologia e i nostri frutti.  Ma nemmeno immaginano che se gli esseri umani fossero rimasti confinati dentro i confini, ora saremmo all'età della pietra.
E al di là della politica migratoria, vedere il mondo da un'altra prospettiva rispetto alla "nostra" ci insegna a walk a mile in someone else's shoes, a percorrere un pezzo di strada con le scarpe di qualcun altro, prima di giudicarlo. Quindi in fin dei conti, se io giudico quello che ero prima, una provinciale piena di paure e una milanese intellectual-hipster e mille altre mila cose, è perché ho camminato a lungo in quelle mie vecchie scarpe, e ci cammino ancora a tratti, volente o nolente

Concludendo, mi sono però accorta che se fosse obbligatorio vivere all'estero per un po', magari poi finirebbe che i pensieri di chi va forzatamente via, rimarrebbero uguali, perché molto più dei fatti, conta la nostra personale attitudine a farci modellare dai fatti, invece della scelta di rimanere granitici.
E insomma, mica è colpa loro se non riescono a camminare in scarpe altrui. Lasciare che la realtà ci sciolga (mescoli, fluidifichi, smorzi la nostra identità) è veramente un'impresa difficilissima.
E' così comodo e piacevole restare aggrappati a ciò che siamo. Potrei fare una lista delle cose che non riesco ad abbandonare, ma allora sì mi starei lamentando, e lamentarsi è IL male.