mercoledì 13 novembre 2013

Quanto vale vivere

...dal momento in cui mi hai risposto, ho deciso che tutto quello che mi succede a causa tua ti apparterrà. È-scritto-in-me-ed-è-scritto-in-te. Ogni pensiero, desiderio, passione, timore; ogni creatura, feto o aborto che concepirò a causa tua. È questo il fulcro del mio contratto con te, e solo con te, in virtù del quale rinuncio a ogni tentativo di corteggiamento, rinuncio a censurarmi e, più in generale, al diritto di difendermi...
(Che sollievo scrivere queste parole.)
Ma ecco, ho riletto quello che ho appena scritto.
Come mi piacerebbe scriverti diversamente. Come mi piacerebbe essere uno che scrive in un altro modo. Le mie parole sono così pesanti. In fondo avrebbe potuto anche essere semplicissimo, no? Come quando si chiede "Dimmi, piccino, dove ti fa male?", allora chiuderei gli occhi e scriverei in fretta: volesse il cielo che due estranei vincessero l'estraneità.
Il principio stesso dell'estraneità, carico di prescrizioni e conseguenze - il vertice del Cremlino, soddisfatto e sazio, che ci si è assestato nelle profondità dell'anima. Come vorrei pensare a noi come a due persone che si sono fatte un'iniezione di verità per dirla, finalmente, la verità. Sarei felice di poter dire a me stesso "Con lei ho stillato verità". Sì, è questo quello che voglio. Voglio che tu sia per me il coltello, e anche io lo sarò per te, prometto. Un coltello affilato ma misericordioso - parola tua. Non ricordavo nemmeno che fosse lecita. Un suono così delicato e ovattato. Una parola senza pelle (se la si ripete più volte a voce alta ci si può sentire come terra riarsa, e non è facile il momento in cui l'acqua s'infiltra fra le crepe). Sei stanca, mi obbligo a dirti buonanotte.

D. Grossman, Che tu sia per me il coltello


Da qualche giorno accumulo idee per un post sul blog, ma tra viaggi e lavoro non ce l'ho fatta.
E poi non avevo la chiave di volta, il perno su cui far ruotare queste idee che mi giravano in testa.
Poi stasera i miei "genitori" inglesi mi hanno fatto leggere una cosa, una di quelle catene che dice: Se hai più di 30 anni allora capirai che...
E via di esempi di merende a pane e marmellata, di bacchettate a scuola, di cadute dalla bicicletta che si concludevano con tua mamma che dopo averti medicato ti menava invece che con la corsa dall'avvocato per fare causa al comune per la buca nell'asfalto ecc ecc.
Ora, la nostalgia c'entra poco. Sono figlia degli anni 80 e nella mia vita non mi è successo niente di grave, eccetto nascere con una sensibilità eccezionale che ha trasformato in mostri cose da ogni giorno.
Il punto centrale è: soffrire è meraviglioso. Fare fatica. Attraversare tutto. Buttarsi sotto la doccia fredda, camminare sulla sabbia bollente. Accettare che tutto quello che arriva è sempre e solo per il meglio. Provare a cambiare le nostre risposte automatiche. Accettare che quando sei nato non puoi più nasconderti. Riconoscere che mi sono sradicata per radicarmi, che ho corso lontano per ritrovarmi, che ho aperto misteri solo per ritrovarmi a scoprirne altri, più preziosi, che ho camminato a testa in giù per accorgermi che era la posizione giusta.
Siamo tutti spaventati dalle difficoltà, dalla fatica. E controllare le vita quotidiana con cibi più sterili e (presumibilmente) più salutari, leggi e regolamenti, routines e piani per un futuro di successo, ci sembra un'ottima via di fuga.
Ma il nostro vero spavento, la nostra vera minaccia è sempre lì, e rischiamo di ritrovarla uguale a 80 anni.
La nostra vera minaccia siamo noi stessi, la nostra parte che non vogliamo guardare. La nostra metà oscura, in cui vive urla e strepita il nostro bambino ferito. Perché tutti siamo (stati) bambini feriti.
E l'unico modo di farci pace con questo bambino ferito non è regalargli le caramelle e distrarlo, ma trovare il coraggio di farlo piangere e consolarlo. E portarlo in giro con noi. E amarlo, nonostante la vergogna e il fastidio che ci provoca. E lasciare fare a lui. Che ci dirà quanto un frutto appena colto è meglio di un succo, un bacio meglio di un messaggio d'amore, una caduta dalla bici meglio di un pomeriggio davanti alla PS3.
Che dal dolore di questo bambino sgorga pura la vita nuova.
Eppure, ancora questo post non ha un gran senso, è solo un accumulo di cose. Ma se devo rispondere alla domanda che mi sono posta nel titolo, direi che vivere vale tutto, solo se è vivere più forte, non più a lungo.