domenica 3 novembre 2013

La migrazione dei pensieri - Un post mal miscelato sulla mescolanza.

Ho scritto ieri una cosa, e continuo a credere che sia vera: non bisogna lamentarsi. Non ad alta voce, e preferibilmente nemmeno tra sé e sé. Se possibile bisognerebbe astenersi dal lamentarsi anche del maltempo.
Noi siamo in gran parte il prodotto dei nostri pensieri, e se non li controlliamo o perlomeno monitoriamo, ne restiamo fottuti. Finiamo con il costruire un mondo orribile e vedremo persone orribili e vivremo una vita orribile, ovvero renderemo reale l'esatto specchio delle nostre lamentele.
Ma ciò mica significa che tutto vada bene.
Per esempio, in questi giorni in cui sono un po' provata dallo stare lontana dalla mia vita "normale" e soffro la provincia inglese, penso che questa cosa dell'allontanarci dalla nostra normalità sia in assoluto la prova più challenging and rewarding da fare nella vita. Tanto che, se fosse per me, dovrebbe essere obbligatorio.
Pensavo per esempio a chi dice che i migranti, se non stanno bene nel loro nuovo paese, avrebbero potuto stare a casa loro. Che poi chi lo dice sono persone, che io, dal fondo dei miei stereotipi, immagino elettori della Lega, che se vanno all'estero (generalmente a Sharm el Sheik e comunque non ci vanno sotto minaccia della guerra o della mancanza di cibo per i propri figli) si lamentano degli spaghetti scotti.
O pensavo a chi si lamenta di non riuscire a capire l'italiano di un migrante, e magari non lo capisce perché lo straniero usa i congiuntivi, mentre lui maneggia un dialetto travestito da italiano. O a chi si lamenta degli odori di cibo straniero nelle proprie scale. Non solo non hanno mai provato che cosa significa avere in bocca una lingua che non riesce a dire quello che vuole dire e nel cranio un cervello alieno e nelle narici altre consuetudini, ma non hanno nemmeno provato a pensarci.
E pensavo che quelli che hanno paura della contemporanea mescolanza, non riescono a pensare che le lingue, tutte le lingue, portano in sé i segni della millenaria mescolanza. Così come le cucine e il nostro sangue e la nostra tecnologia e i nostri frutti.  Ma nemmeno immaginano che se gli esseri umani fossero rimasti confinati dentro i confini, ora saremmo all'età della pietra.
E al di là della politica migratoria, vedere il mondo da un'altra prospettiva rispetto alla "nostra" ci insegna a walk a mile in someone else's shoes, a percorrere un pezzo di strada con le scarpe di qualcun altro, prima di giudicarlo. Quindi in fin dei conti, se io giudico quello che ero prima, una provinciale piena di paure e una milanese intellectual-hipster e mille altre mila cose, è perché ho camminato a lungo in quelle mie vecchie scarpe, e ci cammino ancora a tratti, volente o nolente

Concludendo, mi sono però accorta che se fosse obbligatorio vivere all'estero per un po', magari poi finirebbe che i pensieri di chi va forzatamente via, rimarrebbero uguali, perché molto più dei fatti, conta la nostra personale attitudine a farci modellare dai fatti, invece della scelta di rimanere granitici.
E insomma, mica è colpa loro se non riescono a camminare in scarpe altrui. Lasciare che la realtà ci sciolga (mescoli, fluidifichi, smorzi la nostra identità) è veramente un'impresa difficilissima.
E' così comodo e piacevole restare aggrappati a ciò che siamo. Potrei fare una lista delle cose che non riesco ad abbandonare, ma allora sì mi starei lamentando, e lamentarsi è IL male.


2 commenti:

Anonimo ha detto...

"lamentarsi è IL male."

io lo chiamo cosi: if you start off the week wearing a smile, you are the rebel already

spero che tu sita bene e che gli UK ti stiano dando le emozioni / vibrazioni giuste.

A presto.
s

misanderstanding ha detto...

It's Monday, don't forget to wear your smile!
;)