sabato 8 dicembre 2012

L'ultimo post di questo blog

C'era una volta una fata.
Tutta ricciolina, con le ali trasparenti e iridescenti, come quelle di una libellula. Volava sopra il pezzo di mondo che le era stato assegnato, e pensava che non ne esistesse altro.
Vedeva sempre le stesse persone danzare assurde e precise geometrie sotto di sé, gli stessi campi verdi in primavera gialli d'estate grigi in autunno e neri di terra smossa in inverno. A volte bianchi di neve.
Respirava l'odore del letame. Non lo sentiva quasi mai, solo qualche sera in maggio le prendeva la gola e la faceva tossire. E tossendo le sue ali tremavano nel sole o scrollavano le gocce di rugiada tutto intorno.
Conosceva le voci delle persone, e riconosceva il fruscio di ogni albero o cespuglio. Si avvicinava ai cani addormentati, e questi nel sonno cercavano di prenderla, ma non ci riuscivano mai.
Stava nel sole, con gli occhi cangianti semiaperti nella luce. Sentiva avvicinarsi i camion, li seguiva per un po' tremando nello spostamento d'aria, poi tornava indietro. I treni la lasciavano estasiata. Dritti sotto di lei, tagliavano la nebbia o l'afa, come un pendolo, avanti e indietro. Un sibilo li precedeva, lei volava più forte che poteva insieme a loro, poi si fermava, senza forze e con il cuore impazzito, nel rombo che si lasciavano dietro. Lo spostamento d'aria la stordiva, e le piaceva. Vedeva dei volti dai finestrini a volte, quando volava alla stessa velocità del treno. Erano distratti. Assorti. Ma come? Erano sul treno, il mezzo più veloce che potesse immaginare, e non erano entusiasti, estasiati, rapiti all'idea di essere tutto ad un tratto altrove? Come si fa ad annoiarsi?
Lei in effetti non sapeva cosa volesse dire annoiarsi. Non dava il tempo alla noia di entrare. La teneva lontana. Ogni giorno era un giorno nuovo: a volte dormiva fino a tardi, nascosta nelle pieghe di un tronco, a volte andava a svegliare il sole nella campagna vicino al cimitero.
A volte beveva dal fondo di una tazzina di caffè abbandonata sul tavolino di un bar sotto i portici di mattone, e tutto girava più velocemente. Altre volte invece da un bicchiere di vino. Il mondo diventava colloso, come la sua bocca senza labbra.
Ma un giorno, senza motivo né preavviso, la fata conobbe la noia. Da giorni volava nel sole di giugno, ormai polveroso. Quel pomeriggio il paese di mattoni e cemento riposava nel dopopranzo. La fata si fermò sul balcone di un appartamento (bello, con il camino che riposava e le luci calde, le tende morbide e lucenti, immobili) e si chiese: e adesso cosa faccio? Aveva scoperto la noia, oppure la noia aveva scoperto lei. Chi può dirlo?
Nei giorni successivi volo stanca e non andò alla fontanella per togliersi la polvere dalle ali. Non salutò gli alberi, né li riconobbe. Il terzo giorno bevve 4 fondi di vino. Si svegliò la mattina dopo arruffata, opaca, tremolante. Si andò a lavare, mangiò mezzo chicco di grano e si rimise a volare. Guardava ogni cosa con attenzione. Era come se tutto fosse nuovo. Le piaceva. Ma era stanca. Era come se una patina fosse scesa sui suoi occhi, e guardare per bene le costava un'enorme fatica.
Poi si ricordò di un gioco che aveva inventato. Sapeva che virando veloce accanto a quella casa laggiù, con l'intonaco rosa sporco, sarebbe riuscita a fare la gincana tra la palma e il cipresso, così ridicoli vicini, così ridicolmente vicini. Lo fece, sempre più veloce, contando mentalmente il tempo. Alla fine era senza fiato, stremata, ma orgogliosa. Era stata velocissima. Vide un bambino in una culla, sotto di lei. La fissava ridendo. Ogni tanto accadeva, qualche bimbo poteva vederla. Niente le dava più gioia. Essere vista. Dare gioia. Dormì bene quella notte. La fatica fece diventare buio in fretta, e fece scendere il silenzio. Sognò il bambino.
Ma la mattina seguente, bevendo la prima goccia di rugiada, di nuovo. La noia era tornata a trovarla. Era spossata eppure irrequieta. Cercava un posto dove andare, ma restava ferma, incapace di andarci. Volò per un po' nei dintorni, poi si confuse nel vento e si spaventò per un cane lontano.
Torno all'albero in cui si era svegliata, un salice piangente nel parco davanti alla scuola. Chiusa. In un attimo capì. Non era annoiata, era sola. Doveva fare amicizia.
Con chi? “Fate nei paraggi non ce ne sono, il ministero ha fatto dei tagli e la prima sta a 2 giorni di volo da qui. Elfi, gnomi, folletti sono in sciopero da anni, ormai si sono trasferiti tutti ai Caraibi, vivere nei boschi di pioppi allineati era diventato insopportabile. Gli umani non mi vedono, a parte i piccoletti che però non parlano e nemmeno si muovono. I cani nemmeno mi possono vedere, ma mi vogliono mangiare lo stesso. Le bestie selvatiche corrono tutto il tempo. Gli animali nelle stalle sono tristi. Gli alberi mi amano, ma nel loro modo così distaccato, devo essere sempre io a mettermi nel punto giusto per farmi fare le coccole dalle foglie. Gli insetti vivono troppo poco, mi affeziono e già non ci sono più. Chi manca? Ma certo, gli uccelli!”
Così la fata decise che avrebbe conosciuto tutti gli uccelli del cielo (del cielo che lei conosceva, mica tutto). Andò dalla rondine, nel nido sotto la grondaia. E questa, mentre andava e veniva dal prato dove trovava vermi prelibatissimi, le raccontò la fatica dell'andare e del tornare, e del nido da costruire e mantenere, e dei piccoli da allevare e poi salutare. Ogni anno, portata via dall'istinto e costretta a tornare. Era buona, la rondine. Ma troppo, troppo seria. Lei voleva soprattutto giocare.
Andò dal piccione, ma fu un disastro. Continuamente scappava, attratto da pezzi di focaccia, o spaventato dai passi umani. E quando stava fermo, il dondolio continuo la frastornò a tal punto che lo saluto discretamente.
Volò allora verso il passerotto. Viveva nei tigli vicino alla fontana. Una vita di moscerini e briciole cadute dalle tovaglie sotto le finestre, o lasciate per lui sui davanzali. Piccola, come lui. Semplice, esattamente come lui. La sua compagnia era deliziosa, pacificante, ma lui era troppo pesante per andare con lei nelle scorribande ai limiti del mondo.
Andò quindi dal fagiano, nascosto nei campi, non li avrebbe mai lasciati. E dagli storni, che si raccontarono tutti insieme, un corpo unico di coreografie velocissime, lontane e bellissime e ondulatorie. Sarebbe finita schiacciata lì in mezzo.
Non conosceva altri uccelli lì. Aveva imparato ad apprezzare quelli che aveva conosciuto, ma ciononostante giorno dopo giorno, la noia si trasformava in tristezza. Le ali ingrigite, le orecchie incapaci di ascoltare, la bocca come un taglio orizzontale, chiusa.
Poi, in una notte di silenzio senza sonno, incontrò il gufo. Che le raccontò delle attese. E di ciò che i suoi occhi gialli gli permettevano di vedere. Ombre, vere, nella notte, che si facevano suoni incomprensibili e odori indecifrabili, senza cambiare forma. Dedito ai misteri, il gufo affascinò la fata, che rimase con lui ad esplorare la notte. Per molte notti di seguito.
Il gufo le spiegava, paziente, le teorie che aveva elaborato. La fata lo stava ad ascoltare, rapita. Timidamente provò ad avanzare le sue teorie, ma il gufo non era mai d'accordo. Gliele smontava tutte, con argomenti inoppugnabili, almeno per la nostra fata. Che notte dopo notte iniziò a deperire. Senza la luce del giorno, la bellezza del sole, le corse a perdifiato, chiusa nella notte e incapace di penetrarne i misteri insieme al gufo (che era sì suo amico, ma troppo assorto nelle sue ricerche per preoccuparsi per lei) si sentiva sempre più stanca. Non era noia, con il gufo non ci si annoiava. Era mancanza, desiderio di vita, lontananza.
Un'alba fredda di novembre decise: tornò a vivere nella luce, di luce. Si prese in faccia la nebbia e le brine dell'inverno, guardò il bianco della neve posarsi ovunque, seguì i vapori dei fiati di bimbi e animali nel freddo per un lungo inverno. La luce era poca, ma più di prima. Resistette, finché la neve si dissolse. Ogni tanto andava a trovare i vecchi amici, tranne la rondine che aveva lasciato il nido vuoto, ma presto sarebbe tornata dalla sua Africa invernale. La noia era sempre con lei, ma la fata iniziò a conviverci. Guardava il mondo, ascoltava, gioiva di cose piccole e contemplava le grandi. Seguiva i treni con i vetri appannati, spiava i bambini nelle case.
Nel primo giorno caldo di maggio si spinse lontano, ai margini del posto che le era stato assegnato. e incontrò un'upupa. Un uccello raro da incontrare, con una cresta spettinata e un abito a righe un po' serio un po' clown. Un nido minuscolo, in un sottotetto pieno di libri. L'upupa leggeva tutto quello poco per volta lei e i suoi genitori prima di lei e i suoi nonni e i suoi trisavoli erano riusciti ad accumulare in quello strambo nido.
Leggeva e poi volava via, per capire se c'ere un modo di accordare i suoi voli al ritmo delle pagine. A volte ce la faceva, e tornava felice. A volte no, ed era imbronciata, chiusa, dolente. La fata andava e tornava dal nido, era incuriosita da questo uccello. E si divertivano a raccontarsi, a scambiarsi opinioni, volarsi intorno.
L'upupa era imprevedibile e libera, tanto che una volta se ne stette via dal nido per una settimana intera.
La fata torno al suo solito salice. La noia era tornata forte a sgranocchiarla. Per togliersi il tormento andò fare la solita gara tra la palma e il cipresso. Una, due, tre, cinque dieci volte. Sempre più veloce. Finché dalla casa sentì levarsi un lamento alto. Corse, e vide il bambino che qualche mese prima rideva con lei, pallido, nelle braccia della mamma che disperata lo chiamava. Lui non rispondeva. La fata in un attimo, mentre ancora respirava forte per i voli velocissimi tra palma e cipresso, sentì un dolore fortissimo attraversarle ogni atomo. Una rabbia per l'ingiustizia a cui stava assistendo. Un orrore per il mondo. Tremante fuggì, per cercare conforto da qualche suo amico. Stava pensando a cosa dire, e come dire quello che stava provando. Dargli una forma per non soccombere.
Ma mentre volava, si trovò, senza accorgersene, di nuovo davanti alla finestra. Respirò forte, a lungo. Poi si infilò tra le tende, si avvicinò alla mamma disperata e le volteggiò attorno. Non la vedeva, e nemmeno il bimbo, che era ancora immobile.
Dietro l'ordine di un impulso fortissimo, volò nella minuscola narice del bambino. Era buio, stretto, freddo. Faceva fatica. Andò a tentoni, le mancava l'aria. Era spaventata, oppressa. Si appoggio da qualche parte e chiuse gli occhi.
Basta, pensò. Voglio uscire.
Aprì gli occhi. Vide la donna. Sentì una voce, piccola e che le vibrava ovunque, dire mammamamama. Era la sua. Ma era il bambino che parlava. La mamma le saltò addosso. Baciò il bambino ovunque, e lei, piccola com'era, sentiva i suoi baci ovunque. Sentiva l'odore della donna, di pianto, di tristezza che se ne andava, e l'odore gioioso di mele che tornava.
Era diventata un bambino. Una bambina per la precisione. Marilisa.
Aveva letto Pinocchio insieme all'upupa, e rideva al pensiero.
Guardò la mamma. La sua mamma. Poteva chiamarla così? Le si strofinò addosso. Era a casa. Poi si allontanò. Per giocare con il trenino. Da grande ne avrebbe presi molti. Meglio imparare a conoscerli.


Nessun commento: