sabato 5 aprile 2014

Le cose che ho imparato in sette mesi di scuola nella campagna inglese

Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
- Hypocrite lecteur,  - mon semblable,  - mon frère!

Oggi è stato il mio ultimo giorno di scuola a Spilsby, Lincolnshire, UK.
Forse è presto per fare un bilancio, ma voglio fissare questo momento di consapevolezze all'incrocio tra me, la stranierità, l'adolescenza e l'educazione,
Al di là delle questione prettamente didattiche (esiste un modo di insegnare storia che non è il prof che parla per due ore, si possono coltivare talenti artistici anche dentro un percorso didattico strutturato) ho capito che:
- in classe non hai solo dei ragazzini. Ogni mattina arrivano a scuola le loro famiglie e l'intorno geografico, socio-geografico, psico-geografico, e il governo, e i datori di lavoro, e il mondo intero. Hai torme di persone davanti a te. Tu occupati solo dei ragazzini,  che sono il tuo vero datore di lavoro, ma non dimenticarti che tutti gli altri hanno influito, influiscono e influiranno su di loro.
- il fatto che i ragazzini siano il tuo datore di lavoro non significa accontentarli o che debbano averla vinta ogni volta. Significa conquistare la loro fiducia e ammirazione, così li avrai vinti per sempre, e faranno tutto quello che gli chiederai. Ma loro non sapranno che lo stanno facendo per loro stessi e non per te, quindi tu ringraziali.
- per insegnare qualcosa devi trovare un punto di equilibrio tra la noia di quello che gli studenti sanno già e l'impossibilità di quello che non sanno ancora fare. Un faticosissimo equilibrismo. E devi sempre spiegare perché stai insegnando ciò che insegni. La risposta: "è nel programma" non convince nessuno.
- per essere un bravo insegnante servono sogni. Sogni personali, e sogni sui ragazzini. Di un loro futuro brillante, luminoso. Non ricco, no quello che cazzo c'entra. Un sogno di felicità. Non servono le statistiche, non i codici di progresso. Ma i sogni. E principalmente il sogno che questi ragazzini costruiranno un mondo migliore. In una scuola di provincia è maledettamente difficile sognare e far sognare. Perché tutto è lento, immutabile, conservatore perché conservato, disperso, lontano ma nello stesso tempo tutti ti controllano. In provincia i sogni diventano prepotenti, e devi andare a farli germogliare altrove, o non diventano. In provincia i sogni non superano i confini del villaggio, i limiti del pettegolezzo. Devi avere sogni giganti, in provincia.
- la provincia è uguale ovunque. Mi fa mancare il fiato e venir voglia di scappare, ovunque si trovi. Ma mi affascina, anche, perché mi fa tornare da dove sono partita. E in provincia, quella vera, la gente si sposa tra consanguinei e gli stranieri sono quelli del villaggio accanto. Immaginatevi come potevo essere straniera io. Ma il fatto è che siamo tutti stranieri, ma con una grande urgenza di appartenenza e accettazione.
- quello che un insegnante sogna per sé, determina il sogno che avrà per gli studenti. Ma un insegnante sa anche che il sogno non è un obbligo, ed è pronto a cambiare idea,  perché sa che ha molte più cose da imparare che da dare. La supponenza degli insegnanti è orrenda, sterile, anzi controproducente. E i ragazzini ti vedono attraverso. Non puoi mica mentire od abbellirti. Il sorriso finto lo sgamano subito. La noia, pure. La paura, in un nanosecondo.
- insegnare è gettare un seme che non sai quando germoglierà e che cosa ne nascerà. Ma se non lo lanci, questo seme, non nascerà niente. Le date, i fatti, i nomi, quelle se le dimenticheranno. Ma il seme, prima o poi, fiorirà. E questa scuola inglese che si ossessiona con i risultati è una scuola che non vuole che gli insegnanti lancino questo seme. Perché il seme è potenzialmente rivoluzionario, mentre le statistiche sono inerti (se non per tagliare i fondi a chi non li raggiunge, e obbligarlo a insegnare per il risultato immediato). Se in Italia mi lamentavo di questo controllo, in Inghilterra è così opprimente da togliere il fiato. 
- nella scuola dove ho lavorato gli insegnanti erano stressatissimi: 35 ore a settimana a scuola più il tempo a casa di correzioni e preparazione, controlli ogni sei settimane, valutazioni interne, valutazioni esterne, report, programmazioni scritte, riunioni. E nessuna staff room. E soprattutto  la supervisione non disinteressata di un tizio che guadagna dal gestire l'accademia grazie a detrazioni fiscali gentilmente concesse dal "labourista" Tony Blair. Cazzo, che sogni puoi avere in queste condizioni? Gli insegnanti sono lavoratori, ma non possono essere sfruttati (nemmeno gli altri lavoratori dovrebbero esserlo, tra l'altro). Gestiscono relazioni, e devono avere il modo ed il tempo di essere aperti per accogliere queste relazioni.
- un mio studente aveva problemi di dislessia. Ogni tre parole mi chiedeva: "Is the spelling correct?" e lo era sempre. Lo stigma del problema addosso ad un ragazzino lo segna a lungo. Nello stesso identico modo,  il nostro giudizio sulle cose le fa diventare quello che vogliamo, anche in senso negativo, visto che lamentarci vien sempre comodo. Le cose e le persone cambiano, mutano, ma solo se lasciamo loro lo spazio per dispiegarsi.
- R. è gigante, ha 13 anni ma se volesse potrebbe farmi seriamente del male. E' totalmente ingestibile: problemi di attenzione, di lettura, un'intelligenza superiore che non riesce ad esprimersi pienamente, unità alla naturale stupidità della sua età. L'ho visto felice solo cucinando, e ho visto la sua TA (sostegno) arrancargli accanto tutti i giorni. E lei riconosce in lui un'umanità e delle qualità uniche. Perché R. sa essere tenerissimo, e onestamente disarmante. Ma ho visto gli insegnanti insistere perché lui si comportasse secondo la norma. Ma che norma possiamo applicare a R.? La sua vita è la sua norma. Non è nasty, è solo ciò che può essere. E non sarà la voce grossa a dissuaderlo. E non sarà dargli una red card, metterlo in isolamento, spedirlo fuori, chiamare l'extra support ad aiutare il docente. Perché nel momento in cui l'insegnante gioca più pesante, gioca di forza ha perso. Perché ora il ragazzino sa che lo considera un nemico, e farà di tutto pur di vincerlo.
- Un giorno preparavo un piccolo video, e cercavo i costumi. Ho messo le scatole dei costumi nel corridoio, perché erano impilate in un minuscolo sgabuzzino. Giusto il tempo di aprirle, cercare, richiudere e riporre. Qualcuno passando le ha viste, e ha pensato che ero un pericolo per la sicurezza dei ragazzi e hanno fatto un report in segreteria. Oppure hanno pensato che la domanda di uno studente, a margine di una lezione, su come si diceva una parola in italiano, fosse una pericolosa distrazione sulla via della saggezza che loro stavano infondendo agli studenti. Quindi, le perle ai porci conviene darle solo se i porci hanno qualche possibilità di migliorare, ovvero sono ancora studenti. Agli adulti meglio dare solo quello che si meritano. E invece di arrabbiarmi, restarci male, giudicare, dovrei sempre ricordarmi che il nemico sono io. Perché se io sono serena, niente mi tocca. E per essere serena, non posso che fare una cosa, essere me. Peccato che in Inghilterra, in una certa Inghilterra che poi è simile ad una certa Italia, essere adeguati sia più importante dell'essere sinceri. Vedi tabella sottostante. Vedi la mia ironia amara sugli inglesi. Non sono mica serena, se noto tutto ciò.
- L, why are you here? ( sottotesto, at this lesson, if you are refusing to work) Risposta: Because I'm from Spilsby Miss. Why are YOU here? La sensazione di solitudine, di straniamento, di diffidenza, di rifiuto che ho provato io, straniera in una scuola di provincia, è la sensazione base di ogni essere umano sulla terra, da quando si stacca dalla mamma fino alla tomba. E ogni essere umano sulla Terra, tendenzialmente fa quel che può, quel che gli hanno insegnato a fare per proteggersi da queste sgradevoli sensazioni. Gli adolescenti attaccati (esplicitamente o implicitamente) dagli insegnanti, si proteggono attaccandoli, e viceversa. L'indigeno che si sente invaso dai forestieri, attacca vedendoli sbagliati, pericolosi. Lo straniero attacca l'indigeno, trovandogli i difetti, o bevendo rumorosamente wodka sulle sue panchine per difendersi dalla solitudine. La working class sgomita per arricchirsi, non capendo che il ricco ha bisogno del povero, e che per uno che ce la fa, milioni vivono in un'assurda rancorosa speranza. L'orrore del mondo è dovuto al fatto che il divide et impera è un meccanismo chiarissimo a quelli che comandano, che sanno usarlo per far fare le guerre intestine ai poveracci, invece che contro di loro.
- un regalo dato o ricevuto, un abbraccio a ciglio umido e un "ciao", in italiano, detto da (o indirizzato a) uno studente di cui ti ricorderai per sempre come se avessi tra gli 11 e i 16 anni, è una ricompensa eccezionale. Love is the answer.

La conclusione di tutto ciò è una sola. Almeno per me.
L'equilibrio tra individualità e comunità, tra differenze e umanità, tra tradizioni e novità, tra peculiarità e globalità, tra trasmissione del sapere e innovazione del sapere, tra autoritarismo e egualitarismo, tra si trova in un solo modo: bisogna uscire dal proprio ego.
Voglio ricordarmi sempre che niente di ciò che accade è un attacco a me, che gli altri sentono le loro miserie e si stanno, anche loro proteggendo. E che se attacco peggioro tutto. Posso solo provare ad essere gentile. Almeno al livello di vita quotidiana, delle persone che incontro e che sono come me. Anche se poi certamente esiste qualcuno che sa che fili sta tirando delle marionette che pensa di comandare, e per quelli riservo tutta la mia indignazione e cercherò per quanto possibili, di fotterli.
E voglio ricordarmi che tutto è collegato, l'altro non è altro, ma è un'estensione di me, altrettanto preziosa. Anche se diversa. Dividere il mondo in me/altri è come scegliere un braccio, tra destro e sinistro, a cui rinunciare. Saremo monchi per sempre, se faremo questa scelta.
Una volta affrontato l'ego, e vigilato, tenuto a bada, combattuto giorno per giorno, tutto il resto (ovvero il cambiamento politico, economico, sociale) sarà solo una naturale conseguenza di tutto ciò. Perché se fai crollare dentro di te il divide et impera, questo smetterà, prima o poi di funzionare. E' l'unica rivoluzione possibile, che è poi il mondo, possibile, ancorché difficile di gente come Gandhi e Mandela. Quindi certo che serve fare politica, e protestare contro chi il divide et impera lo usa e lo vuole diffondere sempre di più. Bisogna però, credo, soprattutto cambiare prospettiva. Ma che fatica, e che tempi lunghi.
L'alternativa, però. ricordiamolo, è privarci di un braccio... Preferisco avere pazienza, e tenermi due braccia.

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