sabato 4 febbraio 2012

Esperimenti di tristezza provvisoria

Per essere felici bisogna volerlo, scrissi su Facebook una volta. E quel genio di Clara mi rispose: allora dubita della tua volontà. E io dubito fortemente della mia volontà, che mi fa sempre rimandare o tradire le cose che amo di più per la paura di non farcela o di non reggerle. Ma cosa può la volontà di fronte all'inconscio? Poco, molto poco.
L'osservazione può tutto invece. Quindi mi osservo e scopro che do troppo peso alla tristezza, pensando (e già nella parola pensare c'è il germe dell'errore) che sia il contrario della felicità. E invece no. La felicità è uno stato che non posso descrivere. E se lo osservo non svanisce, si dilata, si diffonde, riverbera. E' dio, credo.
La tristezza invece, come tutte le cose di questo mondo (leggete non dico testi buddisti, ma un libro di fisica e capirete) è mutevole. Si forma, cresce, arriva all'apice, discende, svanisce. Allora per allenarmi a consolarmi da sola, che evidentemente da piccola non ho imparato e l'inconscio ne porta le ferite, faccio esperimenti: ad esempio leggo mail di quando io e Davide ci amavamo o penso a mia nonna Maria o al limite leggo un articolo di Belpietro. Sento torcermi lo stomaco, piango. Invece di lasciarmi sprofondare giù, osservo questa reazione e magia, in qualche secondo è sparita.
Mi rafforzo io, e fotto l'inconscio. E posso finalmente dormire.

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