sabato 14 luglio 2012

Dell'inutilità del mio ombelico

Oggi ero triste e pessimista. E ho deciso di concedermi la possibilità di essere triste e pessimista. Di piangere le lacrime di commiserazione che mi portavo dentro da qualche mese e ostinate non uscivano. Mi spremevo come un mezzo limone rinsecchito e indurito da una lunga permanenza in frigorifero, e allo stesso modo molto sforzo produceva due misere gocce. Anche a teatro, anche di fronte ad un testo che mi devastava come Ricorda con rabbia.
Poi mi ha chiamato A. e mi ha detto che anche lui ieri ha pianto. Dopo aver letto la storia di un ragazzo eritreo, unico sopravvissuto di un naufragio di un barcone con 56 persone a bordo. Dalla Libia tentavano di raggiungere l'Italia per cercare la vita rischiando la morte. Fuggiti per sfuggire alla morte, per annusare la vita.
14 giorni e 14 notti attaccato ad una corda. Da solo in mezzo al mare. Ha visto morire i familiari, ha visto navi passargli accanto senza notarlo. Ma  lui doveva vivere. Lui voleva vivere. Lui è vivo. Doppiamente vivo, ha attraversato la morte e per fortuna o per tenacia ha vinto.
E penso che io quest'ansia di vita che fa il paio con lo spregio della morte non l'avrò mai, perché il benessere appanna l'istinto di sopravvivenza. E posso decidere se passare la vita a capire le ragioni sociali, psicologiche, culturali di questa mia inettitudine e continuare quindi a stare nei confortevoli pressi del mio ombelico.
Oppure posso decidere di guardare altrove. Posso decidere di alzare la testa, come un ominide finalmente eretto, e guardare verso gli altri esseri umani, verso i limoni rinsecchiti non dal frigorifero ma dal caldo e dal freddo estremi che ci sono là fuori, dove il mio ombelico non proietta la sua ombra.
E ancora adesso vedo che continuo a parlare di me, e quindi ancora sono ombelicale. E' tempo di altre storie.



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