venerdì 25 maggio 2012

In Corso Lodi ovvero della finzione ovvero un post uscito dalla quarantena

Stasera tornavo da teatro. In bicicletta, passo veloce sul marciapiedi. Due ragazzi, carini, si scostano per farmi passare. Mi guardano. Guardano i miei capelli rasati da un lato, gli occhiali rosa, il rossetto, la bici, le borse, la maglia a pois, il modo in cui li guardo. E si fanno un'idea di me. 
Così come io vedo i loro abiti di cattivo taglio, l'Husky verdino appoggiato sopra, il piede sul paracarro, l'occhio cattivo di chi frequenta la cocaina, lo sguardo che guarda la mercanzia e spera che sia lo sguardo che piace. E mi faccio un'idea di loro.
Tre metri dopo scendo dal marciapiede troppo veloce, e il lucchetto salta fuori dal cestino. Raccogliendolo mi si impiglia la borsa nel manubrio e mentre cerco di liberarmi ad un tratto penso a quei due che mi guardano, e mi costa allontanare la tentazione di rendere i miei gesti meno goffi, di girarmi a guardarli per capire cosa stanno pensando di me, di andarmene. 

E penso al recitare: che è la ricerca di una finzione che, accolta in noi e riprodotta e riprodotta e riprodotta e perfezionata fino allo sfinimento, riesca a trasformare davvero l'altro con cui recito, e insieme a lui chi ci guarda, oltre che me stessa. Trasformare davvero. Davvero dico. Ma cosa dico? 
Esiste la verità? E non dico la verità con la V maiuscola. La verità delle cose che sono così come sono. Senza scopo passato futuro senso. Esistono e basta.
La finzione del teatro non è forse solo la finzione consapevole e volontaria ed accentuata e amplificata della continua menzogna a cui sottoponiamo noi stessi facendoci guardare e a cui sottoponiamo gli altri guardandoli?
Che cosa dico di vero qui, se penso a voi che leggete? Cosa dico di vero a chi amo, se voglio che mi ami? Cosa dico di vero a quelli che mando affanculo, se voglio farli arrabbiare? Cosa mi dite di vero di voi se mi raccontate chi siete? Cosa dico ai miei colleghi se voglio solo mostrarmi più brava di loro? Cosa lascio dire di me da chi mi maltratta? Cosa voglio vedere di me in chi mi loda? 
Come se ne esce? Come evitare di sputtanare la vita cercando di sembrare qualcosa invece di esserlo? Ma è possibile essere? Se sì come? E perché è così importante per me ora? Mi sto di nuovo autorappresentando come quella che cerca la verità? Ma c'è qualcosa che valga per sè ed in sè e non in relazione ad altro? C'è qualcosa da conoscere o è tutto sempre e solo un gioco di specchi, in cui però non vogliamo solo giocare ma anche vincere? 

Respiro. Che bisogna avere pazienza, l'ho imparato da poco. 
Per ora ho una risposta, e uso quella, finché non ne troverò una più ampia. Per ora ho scoperto che  la verità delle cose così come sono forse non è altro che la verità che si trova nell'assenza totale di verità. Nella menzogna consapevole e ripulita, che si fa vera per il semplice fatto che ammette di non essere vera. 
Fingere (consapevolmente) di fingere (inconsapevolmente) aiuta ad essere veri, 
L'osservazione paziente e solitaria della continua finzione della vita quotidiana che si fa per riuscire a rappresentarla ne smaschera la finzione, e ta-da! In quel momento di smascheramento posso essere vera. Ed è quell'attimo di verità in noi stessi, persi nell'assoluta solitudine dell'esperirla, che ci trasforma, noi e gli altri.
E anche James Randi, che ho visto da vicino in questi giorni, dice che i maghi sono honest liars, come gli attori. Ed ha ragione. Per trasformare la realtà bisogna conoscere le leggi della finzione, e far in modo che diventino vere.


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