domenica 2 febbraio 2014

Storia di una caduta in bicicletta.

Avro' avuto 9 anni. Ero una bambina tendenzialmente solitaria, con un carattere cosi' accomodante che mio padre mi aveva soprannominato vipera.
Era estate, e in quel periodo il mio passatempo preferito era fare il giro dell'isolato in bici, pedalando velocissimo fino in cima ad una piccola cunetta, da cui poi mi lanciavo senza pedalare.
Usavo la bici di mia mamma (che mi rubarono poi molti anni dopo in stazione a RdL, mentre un treno mi portava a Milano dove sarei diventata dottoressa in Lettere tra ciellini e cinefili).
La bici era viola, tipo color melanzana, ed era provvista di un bloccasterzo sulla ruota anteriore. Tu giravi una chiavetta, ed usciva un perno bloccava la ruota, in tre diverse angolazioni.
Oltre che solitaria ed accomodante, ero anche curiosa. E mi prese l'ardente bisogno di sapere che cosa sarebbe successo se avessi bloccato la ruota durante la discesa.
Avevo la percezione che avrebbe potuto essere pericoloso. Infatti non riuscivo a decidermi, poi a mezzogiorno di un giorno d'agosto dei tardi anni '80, quando ancora gli italiani andavano in ferie tutti insieme e le strade erano deserte, mi decisi.


Pedalo velocissimo e poi appena la strada imbrocca la discesa, sollevo i piedi dai pedali, che iniziano a girare vorticosi. Giro la chiavetta. Il manubrio si blocca. Mi fa ridere, ci ho provato. Euforia. Pero' ora basta. Tento di sbloccare il manubrio. Non riesco. C'e' una macchina parcheggiata che si avvicina, anzi sono io che mi avvicino. Riprovo. Niente da fare, non si sblocca.
Mi butto a terra. Lancio la bici un attimo prima che colpisca la macchina parcheggiata e rotolo sull'asfalto bollente.
Tremo. Piango, sanguino. Mi sono grattata ginocchia e gomiti e mani. Fa malissimo, brucia. Temo la reazione di mia mamma, che prepara le valigie per andare a Milano Marittima.
Entro in casa facendomi compatire. Ivonne, la madre, e' in effetti poco contenta, e poco amichevole.
Dico che sono caduta dalla bici, senza dire come, e mi sottopongo alla tortura dell'acqua ossigenata che ribollendo dovrebbe levarmi le particelle d'asfalto dalla ferita, ma che in realta' crea una crosta bianca e solidissima, che mi accompagnera', bruciando, per le due settimane di bagni in mare. E pure nella piscina dell'albergo, dove mi fecero misteriosamente entrare nonostante sembrassi una lebbrosa.


Nessuno dei miei atomi e' lo stesso di allora. Ma ho ancora ombre delle cicatrici.











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