lunedì 20 gennaio 2014

I am the master of my fate: I am the captain of my soul

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.

It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.

Non ho un computer funzionante su cui preparare power point delle mie lezioni, o montare un video o guardarne mille su youtube o qualsiasi altra cosa dovrei vorrei fare. Allo stesso tempo non sto bene e non riesco a concentrarmi, ma prometto che dopo aver scritto questo post farò dello cose "adigitali".
Però nel frattempo non è che non abbia fatto niente di valevole e utile.
Ho usato l'iPhone come un tablet, e, rischiando la vista, ho letto un sacco di articoli. Tralasciando le cazzate, ho letto un articolo sul crescente, imbarazzante, vergognoso divario tra ricchi e poveri; un pezzo, bello, sui google glasses e la realtà "diminuita"; uno sulla gentrification ovvero come rendere una zona cool al solo scopo di far scappare i poveri e infine uno sull'uso del termine radical, sul perché rivalutarlo invece che considerarlo un insulto.
A queste letture si sovrappongono i ricordi forti di due, anzi tre film molto diversi ma belli.
12 years slave, bellissimo film sullo schiavismo dalla regia asciutta e precisa; Django, il western in cui si ammazzano molti bianchi e anche molti neri di Tarantino, anzi alla Tarantino e Invictus, sulla vittoria della nazionale sudafricana nella coppa del mondo di rugby, vittoria che Mandela stesso, da poco presidente, ha ispirato e voluto.
Argomenti vicini, ma affrontati in modi diversi.
Dei tre il mio preferito è il primo. Perché? Perché è più radical. Perché ti fa arrivare alla radice del disagio e dell'orrore per la comune appartenenza ad una razza umana che ha pensato che lo schiavismo fosse normale. E perché allo stesso tempo ti conduce alla radice dell'umanità: l'uomo che decide che "vuole vivere, e non sopravvivere". E lo fa con intelligenza, passione, accuratezza, compassione, minuziosità. Vivendo tutte le paure, arrivando a un passo dalla disperazione ma fermandosi prima. Nel film, fatto di lunghi ralenty, di suoni, di tagli stretti sui visi e i corpi alternati a campi larghi bellissimi, mi ha colpito il momento in cui Solomon Northup, il protagonista, uomo libero nel nord degli Stati Uniti rapito e venduto come schiavo al Sud, dopo averne subite qualsiasi umiliazioni ed essere stato tradito e aver visto l'orrore degli esseri umani decide di fidarsi di nuovo e chiede a un bianco antischiavista (Brad Pitt amore mio come sei bello da 50enne) di aiutarlo.
Questa radicale fiducia nel l'umanità, nonostante tutto, e questa radicale fiducia nel raggiungimento del suo scopo, ovvero che tornerà libero e potrà vivere di nuovo, questa radicale consapevolezza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, questo radicale rigore unito ad una radicale tenerezza  sono fortissimi nel film. Anche Mandela era così, anche Django a modo suo, ma questa è un'altra storia. Django non muove le coscienze contro lo schiavismo, né vecchio né nuovo (se Solomon era libero ed è stato venduto, non può succedere anche a noi di crederci cittadini liberi e invece di tornare ad essere schiavi?) .
Ho molte idee e confuse, e scriverle in questo rettangolino non aiuta a metterle in fila.
Ma sono certa di una cosa. C'è bisogno di radicalità. La radicalità è umana, è la vision, è il punto di partenza e il punto d'arrivo. La radicalità è sangue e viscere, ma per davvero.  Non il sangue e le viscere  postmoderne e simpatiche di Tarantino. È la vita vera e non predigerita per te da Google. È schierarsi dalla parte dei deboli invece di provare a diventare come gli 85 più ricchi del mondo.
La radicalità è l' assenza di compromesso. Quello interiore, perché quello esteriore spesso permette di sopravvivere. Ma essere incorrotto e certi, intimamente certi. Almeno una volta, almeno per qualcosa. Non importa quanto ci vorrà. Vincerò. Vincerai.


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